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A un incrocio ci separammo

A un incrocio ci separammo 

Fine dicembre, dopo Natale, limbo. La partita era andata male per la nostra squadra. 25 punti di stacco.

Tornando a casa in bici avevamo entrambi freddo. Portavamo abiti scuri e giacche a vento blu. Il freddo non ci preoccupava però, perché avevamo entrambi sedici anni ed eravamo azzurri e leggeri. Ci emozionavano le canzoni pop e rap luminose, azzurre e dorate. Ci emozionavano in maniera immediata. Senza stare a parlare di tecnica e di stile. Niente ancora sapevamo dell’infelicità dell’ascoltare musiche di venti o trent’anni prima. Silenzio e buio di una periferia dove non accade mai nulla.

Marco era un ragazzo alto e robusto, con i capelli neri fino alle spalle e gli occhi scuri. Io ero un po’ più alto, ma anche molto più magro, con i capelli corti e gli occhi castani. Marco non aveva ancora la barba, io invece la lasciavo già crescere.

Ad un incrocio ci separammo e ci dicemmo “Ciao! Alla prossima!”. Le ginocchia mi facevano male. Presto Marco si sarebbe perso in droghe sempre più pesanti. Oggi invece Marco sta bene. Suo padre mi ha detto che il figlio ha aperto con due soci un ristorante di successo non lontano da Barcellona. Marco non è più azzurro, ma non per questo è infelice, lo ha accettato e basta. O forse non si è mai accorto di aver cambiato colore.

Dicevo, quella sera stanca e blu mi facevano male le ginocchia. A casa mangiai qualcosa in velocità e poi mi misi subito a letto. Al buio, sotto la trapunta azzurra, mi sentii azzurro come non mai. Quella notte non ebbi bisogno di sognare nulla.

Quando avevamo entrambi diciannove anni, Marco faceva colazione con caffè, amaro e canna di erba olandese. Io invece mi perdevo anche per giorni nei colori brillanti di un CD che non avrei mai restituito. Sulla copertina del CD, la cantante era vestita come una specie di geisha e contraeva le labbra rosse in un sorriso artefatto. In alcuni brani la voce della cantante era struggente fino alle lacrime, in altri i suoni mi facevano contorcere dall’emozione.

Seguirono tre o quattro anni convulsi, anni in cui i nostri corpi e la sostanza delle nostre vite cambiavano rapidi come le nuvole con il vento. Finalmente mi comprai quel CD di musica dai colori brillanti.

Sono passati più di vent’anni da quella sera stanca e blu in cui Marco e io ci siamo detti “Ciao! Alla prossima!”. Ho provato tante volte a perdermi di nuovo nei colori brillanti delle musiche di quel CD che a diciannove anni non avrei mai restituito. Ci ho provato anche ieri sera. Il mio cuore però non riesce più a sopportare nemmeno l’ascolto di una sola traccia di quel CD. Sto scrivendo in silenzio. Da tempo non sono più azzurro nemmeno io.

[© Alessandro Corrado Baila 2019 – inedito tratto dalla cartella “Ritratti” – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto dell’autore]

Notti dell’AMA Music Festival

Notti dell’AMA Music Festival 

Lunedì 21 agosto 2023 – verso l’aurora

Altra notte calda. Notte di musica di piano. Ore lente e musicisti giovani. Frinire dei grilli. Le dita si spezzano sui tasti bianchi e neri, ma si continua a suonare, l’arte è più importante. Un insetto notturno entra in casa e svolazza isterico in tondo, attorno a una lampadina.

Una ventina di minuti dopo

Adesso i suoni sono appena accennati, sfuggenti, pungono ai fianchi.

Se si sta svegli di notte, tutto quello che si fa di giorno è lontano, lontanissimo. Essere come in un deserto di polvere di basalto, una sabbia finissima che entra nel naso, nei rari momenti in cui soffia un po’ di vento. Uniche luci, piccolissime, quelle rosse e gialle della città più vicina, che in realtà è far away. Quello è il giorno.

All’alba appena accennata

Suoni piccoli, simili a biglie, che cadono sulla sabbia nera, e poi tacciono per sempre.

Poco dopo le 6

In realtà stanotte hai scritto molto, ma molto di più, solo che quanto sopra è il meglio, il succo che sei riuscito a spremere dalla notte.

 

Martedì 22 agosto 2023 – verso l’una e mezza di notte

Se si sta svegli o ci si alza di notte, quando tutto tace, lontanissimi sono anche i ricordi. Le strade che portano a essi sono tutti labirinti infiniti, oppure serie di cortocircuiti improbabili, che si innescano e si uniscono in maniera imprevedibile. Le vie che ci portano a un volto o a una vecchia canzone sono piene di una nebbia fitta, in cui si avanza rischiando continuamente di sbattere o inciampare in altri pezzi di passato.

Nei club di Londra o di Bristol, dove nelle notti di 25 o trent’anni fa si ballavano due o tre generi di punta, i ricordi e il passato sono come ridotti a una polvere impalpabile, di cui è intrisa l’aria, anche appena fuori in strada. Una cosa ovvia, di cui nessuno parla o si cura. I nuovi giovani pompano e celebrano le release dei generi di oggi, mentre le star dei piatti di ieri se ne stanno nascoste in qualche appartamento, sempre più fuori città, senza ascoltare nulla, oppure passandosi allo specchio le mani sulla barba e sui capelli bianchi. Anche loro svegli di notte, ma sentendo tutta la pesantezza del loro oggi, o tutt’al più gioendo quando la radio trasmette qualche sprazzo turgido dei colori dei loro (pochi) anni d’oro. Mentre nei loro club di un tempo i nuovi giovani intessono di battiti una notte bianca dopo l’altra, bianche sono anche tante notti delle star dei piatti di decenni fa, ma bianche di silenzio, o di due chiacchiere a voce bassa con qualche ex compare, sorseggiando un tè caldo o un caffè lungo. In attesa del giorno – perché dalla notte sono stati bruscamente spodestati. Tra chi riempiva le piste da ballo vent’anni fa, chi invece con la sua musica invece è alle luci della ribalta oggi e chi infine si prepara ad esserlo domani, gira il mondo sempre più veloce e soffia sempre più forte il vento.

 

Giovedì 24 agosto 2023 – quasi le quattro di mattina – notte calda

“Are there animals that like peace and animals that like war?” – così dice il testo di un pezzo di Ryuichi Sakamoto, tratto dal suo album del 2004. Non c’è mattina, o ultimamente notte, in cui non ti svegli già con un qualche musica che ti ronza per la testa.

Una ventina di minuti dopo

Ieri sera, mentre pioveva un po’, ma rimaneva pur sempre caldo e umido, da Nord si sentiva arrivare un concerto di un genere decisamente duro, forse addirittura crossover, ovvero quell’unione di metal e rap. Il volume era alto, sempre più alto man mano che si procedeva con la scaletta. Dopo ogni pezzo, si sentiva il pubblico esultare sempre più forte, sennonché, mentre facevi una cosa piuttosto che un’altra, il concerto si è presto zittito, neanche un’ora sarà durato. Non era esattamente il tuo genere, forse lo è stato per un po’ quando avevi al massimo diciannove anni, certo che però ti dispiace che la cosa sia svanita dopo poco, nel vento e nella notte, come in una soluzione estremamente acquosa. Come se la musica si fosse ridotta a un pulviscolo sottilissimo nell’aria calda. I cantanti (a sentire sembravano due) si sono sgolati, la chitarra elettrica e il basso distorto hanno grattato, la batteria ha pestato, ma quasi sicuramente ora i musicisti e i loro fan sotto tutti a letto a ronfare. Certo, dopo il concerto ci sarà stata un po’ di festa, magari con una birra a testa, come si conviene agli autori e agli amanti del genere, qualcuno del pubblico si sarà anche comprato il disco e se lo sarà fatto firmare dai membri della band, poi tante belle chiacchierate, persone nuove si saranno conosciute e si saranno strette la mano, ma poi? Forse per questo hai acceso la musica anche poco fa, per rimpolpare quella soluzione sempre più acquosa con un po’ di sostanza ritmica e vocale. Ma per chi oltre a te? Perché siamo pur sempre in una zona di provincia, dove tra poco si comincia ad alzarsi uno dopo l’altro per andare al lavoro. Comunque sia e qualsiasi cosa stiano combinando e musicisti e i loro fan, oggi la notte è blu anziché nera.

 

Domenica 27 agosto 2023 – 3 di notte

Lampi senza tuoni

Anche stanotte si suda

Una luce accesa al piano terra

Rumore di qualcosa che si muove sull’erba tra le piante

Anche stanotte la musica del festival è durata fino all’una e mezza e passa

Hanno suonato e cantato artisti giovani

Ma già adesso la notte ha fagocitato tutto

Come un’enorme bocca nera scesa da nord

Le band sul palco, la musica, l’entusiasmo dei fan

Tutto si è fuso

Confuso nella sua bocca

Impossibile distinguere un volto, una voce, una canzone

Adesso la notte sta masticando tutti i pezzi di mondo che ha inghiottito

Il giorno sarà digestione

 

Un amico che è sveglio anche lui

Mi chiama

Telefonata surreale

Come una scheggia di materiale non biologico

Come se nel corpo attraverso le orecchie si fosse integrato un nuovo organo artificiale

“Stai scrivendo?”, mi chiede

“Sì”, dico, ma poi non so più bene come andare avanti

Più silenzio che dialogo

“Ok, ci sentiamo domani”, poi chiude

Quando l’alba è ancora lontana due fusi orari

Poco dopo le 4

La tempesta magnetica si è spostata sopra l’Altopiano di Asiago

Lampi globulari

Essere immersi

Sprofondati nella notte

Come un soldatino di piombo armato di tutto punto

Ma in piedi sul fondo di un secchio pieno d’acqua fino all’orlo

Quando ti alzi di notte perché non ce la fai più a stare a letto, è il giorno precedente che ha il volto del sogno

Acquoso, irreale

Mentre la vera realtà diventano queste ore

Il piano di Ryuichi Sakamoto in A Day in New York

Tutto cantato in portoghese

(probabile richiamo alla copertina di Enemies of Reality dei Nevermore, 2003)

 

Lunedì 28 agosto 2023 – poco dopo le 4 di mattina

Ancora quella luce al piano terra

Stanotte è stata la pioggia a sciogliere, a lavare via tutta la musica di ieri sera

Metal, dai giovanissimi ai sessantenni

Volume basso per i Megadeth, altrimenti la voce non si sarebbe sentita o quasi

Notte e pioggia: ragionare, riflettere, illudersi di farlo

Perché in realtà sta solo continuando il sogno che ho fatto appena prima di alzarmi

Mi sento ancora il sogno scorrere nel cervello frontale

Andare all’indietro, nelle cause e nei perché

Fino a trovarsi di fronte all’Io più vero

E per questo scomodo

Allora alzarsi, farsi un tè

Profumo di zenzero e limone

Cercare distrazione nella musica

Una via di fuga dal quel Sé inquietante

Che però è incastonato nel buio ed emana una luce rossastra

Desiderare allora la luce di ottobre

Rossa anch’essa, certo

Ma delicata, quasi un canto sommesso

Pian piano siamo scivolati in queste ore

Adesso l’acqua gocciola e basta

Si riversa nei tombini, come note rarefatte di piano.

 

[© Alessandro Corrado Baila 2023 – tutti i diritti riservati – dalla cartella del tutto inedita “Diario del 2023“]

 

 

 

 

 

Risate di tanti anni fa

Risate di tanti anni fa 

Chi ascolterà mai tutti e otto i CD di questo lavoro solista di Robert Fripp? Questo 77enne, che già nell’estate 2020 ne aveva le palle piene della nuova crisi mondiale – lui e ancor di più la sua consorte. Chi ascolterà mai uno dopo l’altro tutti i brani di questo cofanetto, senza essere prima distratto da qualche invadente notifica, o da altri ascolti, proposti da algoritmi che ormai ci conoscono meglio di nostra madre? Certo che di momenti tranquilli ne abbiamo vissuti tanti nel 2021, anche se forzati. Di tempo di pensare ne abbiamo avuto tanto, come anche di ascoltare alcune suite anche da 28 minuti di questa serie di CD. Dove, tra l’altro, sulle copertine non si vede nessuno. Perché eravamo tutti assenti, rinchiusi in casa, chi dopo aver perso il lavoro, chi a devastarsi gli occhi lavorando online fino a tardi. Dal 2020, hai sempre più paura delle strade del tuo quartiere, soprattutto se le percorri da solo. Allora, anche per tragitti brevi, usi l’auto e la musica per proteggerti da quel che c’è fuori.

Sei senza calzini anche stamattina. Nel frattempo sono tornate le mosche, ma anche gli Occhi della Madonna. Prima che ieri piovesse – solo pochi minuti – una nuvola grigia ha messo in ombra l’azzurro di quei fiori.

“Furono gli ultimi anni”, scriverai forse un giorno non molto lontano.

[domenica 26 marzo 2023 h 9:16 – ascoltando Music For Quiet Moments di Robert Fripp (2021, CD 3)]

10:44 – ascoltando Il Pazzo Che Ride dei Litfiba (2000)

Ecco, ti sei già distratto! Che dire di questo vecchio pezzo dei Litfiba? Certo in quell’anno il pazzo rideva, rideva a crepapelle, diceva solo bugie, sentiva le voci e vedeva i colori – e tutto questo gli deve essere costato diversi ricoveri coatti in un reparto chiuso a chiave e simile a un carcere. Nel 2000 e forse anche nel 2001, come negli anni seguenti. Ok, ok, rideva, rideva tanto il matto, ma adesso? Adesso come se la passa? Quanti anni avrà mai oggi? Cinquanta? O sessanta? E come sarà mai sopravvissuto agli anni delle crisi una dopo l’altra, senza soluzione di continuità? Come sopravvive oggi? Se non è già morto anni e anni fa, magari di qualche malattia fisica causata dagli psicofarmaci. Perché forse, in quell’anno in cui rideva tanto e non faceva che raccontare balle a destra a manca, l’Italia era diversa e la vita costava sì e no un terzo rispetto a oggi, due aspetti che devono aver fatto comodo anche ai matti e alle loro famiglie, ad esempio per comprare a buon prezzo caffè, farmaci, sigarette forti e alcolici di ogni tipo. Davvero? Ne sei convinto? Forse invece nel nostro Paese l’ossatura, le fondamenta profonde del vivere in società – e tutti i loro cancri antichi e mai veramente curati – non sono mai cambiate di una virgola, perché in ogni epoca c’è stato qualche gruppo di potere che ha lavorato perché di quella struttura portante non mutasse niente di niente.

Dai, oggi è una domenica di sole! Smettila di ascoltare Il Pazzo Che Ride a ripetizione e passa alla bellissima Dall’Alba Al Tramonto! Oltre il confine, c’è chi ce la farà! / E non sarai più solo/ C’è chi ti ha visto in volo/ E che ti seguirà! / Ti dico non sei solo/ Muoviti attento in volo/ Senza girarti mai!

© Alessandro Corrado Baila 2023 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

Panic Jazz Club

Panic Jazz Club 

Domenica 20 novembre 2022 h 13:46 – dopo aver ascoltato le Variazioni di Goldberg di J. S. Bach

Stanotte c’è stato vento. Tanto. E forte. Soffiava da tutte le parti. Sono arrivate notizie. Mah, speriamo che non fossero tutte false dalla prima all’ultima parola. Accontentiamoci di un 10, o magari anche un 20% di mezze verità. Che ultimamente è già tanto. Notizie che hanno sconvolto l’intero scenario. Scusa, come dici? Lo scenario? Dunque viviamo tutti una vita fasulla, come in un film? O in una serie TV, per essere più al passo coi tempi? Forse sì, e lo spettacolo potrebbe finire vedendoci sublimare dallo stato solido a quello gassoso, senza neanche un minuto per dire a qualcuno quanto ci siamo amati.

Stanotte sei stato in giro. Le luci dei lampioni lungo le strade, e quelle dei centri storici delle piccole città della tua zona. Il rumore del vento che batteva prima sui vetri dell’auto e poi sulla giacca, mentre frammenti di senso si staccavano e andavano persi nel turbinio dell’aria. Anche convinzioni incrollabili, valori ancorati nel profondo fino a un attimo prima. Così da lasciarsi dietro resti mutilati e all’improvviso inutili ad alcunché. Per qualcuno poi, il centro della vita si è spostato in avanti o all’indietro, a destra oppure a sinistra, come in una deriva imprevedibile.

Stanotte siete stati in un jazz club. Al chiuso, certo, ma quel ventaccio tirava anche là dentro, tant’è che il pubblico era tutto imbacuccato in giacca, guanti e berretto di lana, e avete bevuto tè caldo o tisane per non congelare.  Davvero pochi affari per il bar del club. Da parte loro, anche i musicisti hanno dovuto coprirsi il più possibile, fino a sembrare tutti obesi patologici. Le note del concerto si spargevano e svolazzavano dovunque, tant’è che ognuno deve aver sentito una performance radicalmente diversa. Anche perché, quando il vento era al massimo, è stato tutto una cacofonia di basso, batteria, tromba e sassofono, completamente fuori tempo. Verso la fine dell’evento poi, sarebbe dovuta arrivare una cantante di fama internazionale, ma presto tutti hanno capito che se ne sarebbe rimasta a cuccia, viste la malaparata e la confusione mentale di cui deve essere caduta vittima anche lei.

Al momento di uscire dal locale, il vento non ha schiaffeggiato solo voi, ma anche le stelle, le ha spostate a caso di qua e di là. Sirio è finita sulla Spada di Orione, mentre la sua gemella ha fatto un grande balzo in mezzo al Cigno. L’Orsa Maggiore si è confusa con quella Minore, come al momento di mischiare la pasta con il sugo e il formaggio. Mira ha preso a cambiare magnitudo ogni cinque secondi e se n’è involata di fianco alla Lira, dopo essere diventata più grande della Luna. Che invece si è allontanata e fatta sempre più piccola, fino a sparire in qualche altro sistema solare. I pianeti, che avrebbero dovuto essere in Scorpione, se ne sono andati a spasso tutti per conto proprio, alcuni a oscurare le Pleiadi, altri bassissimi sull’orizzonte, mentre la Stella Polare – l’unico e ultimo riferimento che speravate sarebbe rimasto – se ne deve essere migrata nel cielo del Sud.

[frammento tratto dalla cartella “Diario del 2022” (work in progress)]

© Alessandro Corrado Baila 2022 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

Ecco come forse avrebbe suonato la musica dentro il club, senza quel ventaccio freddissimo…

Sistema binario

Sistema binario 

Ultimamente ho proprio scelto di starmene in silenzio. In un Silenzio con la S maiuscola. Nonostante tutto quel che è successo negli ultimi due anni, lo stesso ho incontrato spesso gente, ho bevuto tante volte un buon bicchiere in compagnia e ce la siamo raccontata. Ho lavorato. E non mi sono mai ammalato, neanche un raffreddore o un mal di gola. La paura me la sono cavata subito, con un solo tampone negativo al primo colpo, poi più niente. Ho avuto una fortuna sfacciata. A chi o cosa dovrò mai dire grazie per il resto dei miei giorni?

C’è una persona – che forse sta leggendo – una persona con cui non ho mai ascoltato niente di niente ogni volta che è venuta a trovarmi a casa. E dire che a trovarmi è venuta tante e tante volte, anche dal marzo 2020 in poi. Parliamo delle nostre vite, parliamo di lavoro, di come la vediamo oggi nel nostro Paese, ma anche delle cose più grandi – e inquietanti – che accadono già da mesi. Potremmo ascoltare qualsiasi cosa, ma per qualche motivo la scelta è comune. Senza bisogno di dirsi nulla. Va così e basta. E dire che per questa persona la musica è un valore secondo forse solo all’amicizia, mentre per me forse rappresenta una sfera intima che non va toccata.

Non so più in cosa credere, per cosa o contro cosa lottare, chi ascoltare e invece a chi dire “Ok, ok, ho sentito, ciao, io vado!”. Per questo ho scelto il silenzio. Un silenzio morbido e bianco, anche quando è buio. La mattina appena alzato non ascolto più niente, ora mentre scrivo invece solo il battere delle dita sui tasti. Mi accontento dello schioccare della legna secca nella stufa, dei rumori che vengono dalla strada o delle voci che escono dalle case dei vicini. O di quel che si dicono i passanti. Comincio a capire perché certi interpreti di musica di compositori si ritirano nel silenzio, dopo aver raggiunto livelli musicalmente inarrivabili.

Tutta la musica che ascolto da anni con il PC, con il telefono o in chiavetta, o ancora prima con i CD, altro non è fatta che di sequenze interminabili di 1 e 0. Tante volte, perdermi e lasciarmi rapire da un ascolto non ha voluto dire altro che impigliarmi continuamente nell’oceano bianco e afono del sistema binario. Per non parlare degli LP più recenti, che, a quanto mi hanno detto persone esperte, sono anch’essi incisi spesso a partire da musica digitale, dove qualche volta lo stesso rumore della puntina che percorre il microsolco è inserito ad arte. Qualche volta però, è anche il caso di fare un po’ di autocritica: perché anche tutto quel che al computer sto battendo ora e batto da oltre vent’anni, ogni pagina, ogni frase, ogni parola, ogni lettera, le stesse virgole o i punti fermi, tutto questo altro non è che di nuovo quel sistema binario, cui anch’io ho delegato la quasi totalità delle mie relazioni sociali. Forse per questo, qualche volta anziché scrivere al PC preferisco sempre più spesso coltivare a penna il mio diario cartaceo, soprattutto con il favore delle ore di buio e del loro silenzio ovattato, ancora prima che inizino a fischiare i merli o si sentano le prime auto di passaggio.

A long time is coming”, dicono le ultime parole del testo di un certo album uscito nel 2019, dopo che la band aveva osservato tredici anni di… silenzio. Che vorranno mai dire quelle parole? Nel frattempo, già da anni non ho più lo stomaco abbastanza forte da leggere giornali o ascoltare notizie. Sono più contento quando posso lavorare offline, oppure quando spengo la connessione dati del cellulare.

Anziché scrivere, riflettere e pensare ascoltando anche solo musica ambient, o comunque senza suono di percussioni, voglio imparare a non pensare a nulla e a svuotare la mente dal desiderio – e quindi dall’infelicità. Desiderare solo quello che ho. Anziché dirmi e ridirmi che mi manca una certa cosa, più mille altre, che arrivano presto a ruota. Ce la farò? A tutti voi auguro di imparare presto a fare così.

[dalla cartella “Diario del 2022” (work in progress) – riferimento a Fear Inoculum dei Tool (2019)]

© Alessandro Corrado Baila 2022 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

Autunno trasfigurato

Autunno trasfigurato 

Martedì 10 maggio 2022 h 10:34 – senza ascoltare nulla

Alchimie di cuori notturni. La notte è stata silenzio, riposo soffice di chi lavora. Voluttà di sogni, dopo le fatiche senza melodia del giorno. Lo splendore massimo degli iris è stato nelle ore in cui per strada non c’era anima viva. Nessuno si è fermato ad ammirare le loro bocche spalancate, che intonavano canti caldi di maggio e primavere d’oro. Ora invece è mattina inoltrata, e gli iris già cantano con voce stonata la fine della loro bellezza effimera. I petali delle loro bocche cadono verso la terra e si fanno pian piano nerastri. Pesantezza e rumore ruvido di archi scordati.

E stanotte? Stanotte avrai la forza di rimanere sveglio a lungo, a guardare in giardino un cimitero di petali appassiti, sopra violini fatti a pezzi come da un matto e melodie distrutte, scritte su pentagrammi strappati con furia? Forse, ma può anche darsi anche che sarai l’unico, mentre poche ore dopo il lavoro chiamerà, e anime dure andranno presto a onorare il loro dovere, indifferenti e sorde alle alchimie del cuore di un sognatore.

17:22 – senza ascoltare nulla

Passato, trascorso come rapido come un torrente in piena, è quell’autunno della musica dark ascoltata in auto, che più traffico c’era meglio era, perché più traffico c’era più avevi tempo di ascoltare farfalle nere e blu volteggiare nella luce viola. Quell’autunno di piogge e di nuvoloni grigi, ma anche di violini che commentavano baci d’addio, baci taglienti.

Rincasare che diluviava, entrare e trovare tutto un mondo in bianco, nero e grigio. Vecchie bambole ammassate alla rinfusa nei posti più impensati, alcune senza più gli occhi, altre con le gambe e la braccia spezzate, altre ancora fatte a pezzettini. E da fuori sentire il vento furioso, che chiamava a partire verso altri lidi lontanissimi, spiagge di fronte all’oceano in burrasca, o i paesaggi invernali più estremi del Cile più australe.

Da una vecchia chitarra acustica, appoggiata su un vecchio divano, dita lunghe e ossute facevano stillare note languide, gocce d’argento, che disegnavano nuove costellazioni per il futuro. Il rumore della mano sinistra al momento di cambiare accordo. Poi quelle dita e quelle mani intonavano una fuga disperata, lungo una notte che sognavi infinita, senza più un sole che annunciasse un nuovo giorno!

Autunno trasfigurato, perché stai parlando del 2020. Trasfigurato, sì, perché di notte, lungo quell’autostrada vuota, voci senza volto né corpo chiedevano sommessamente luce e pietà per il nostro mondo.

[Dalla cartella “Diario del 2022” (work in progress); riferimento alla copertina e alla musica di Like Gods Of The Sun dei My Dying Bride (1996) e di Damnation degli Opeth (2003)]

 

Note possenti

Note possenti 

Una tarda sera del 1989, forse addirittura d’estate, le note possenti di un synth a tutto volume si sono innalzate come fiamme all’orizzonte e hanno tinto il cielo di giallo e di rosso. Il tastierista Antonio Aiazzi era come spiritato, sudava, e premendo con forza i tasti dei suoi strumenti si piegava di continuo avanti e poi indietro, mentre nel sangue si sentiva scorrere una furia mai provata prima. Eppure, il culmine di quel concerto dal vivo, in cielo non ha luccicato come d’argento che per un paio di minuti, se possibile reso ancor più brillante dagli applausi euforici del pubblico. A un certo momento il concerto è finito, magari i fan avranno chiesto anche qualche bis, ma poche ore dopo erano spariti tutto e tutti. E tutta l’adrenalina di quella tarda sera d’estate del 1989 è tramontata ben presto anch’essa. Stesso destino dei tanti mondi degli uomini di dopo, che uno dopo l’altro sono svaniti sempre più veloci. A quel concerto esaltante, dev’essere seguito il lavoro muto e puntiglioso dei netturbini: lattine di birra pestate, mozziconi di sigaretta, pacchetti vuoti e strappati dal calpestio della ressa, resti di spinelli e siringhe usate, che avevano fatto tutti il loro dovere.

Alla fine del live le voci del pubblico accompagnano il lento sfumare dell’ultimo pezzo. Ma chi erano quelle persone? Come si chiamano? Che vita facevano allora? Sono ancora tra noi dopo tutti quegli anni? Nel frattempo, oggi, 13 gennaio 2022, nel tardo pomeriggio, un vento freddo è disceso giù per una piccola collina con il suono del suo soffio vorticoso, e ha accarezzato i rami neri di alberi spogli. Poi si è confuso con lo smog e il rumore di auto, che in entrambi i sensi scappavano come ogni sera dal lavoro a casa, credendo forse di rimettersi al sicuro.

[dalla cartella “Diario del 2020-22” (work in progress); riferimento a Pirata, album live dei Litfiba del 1989]

Tramonto macchiato

Tramonto macchiato 

Giovedì 23 dicembre 2021 h 17:21

Quando a fine dicembre ci vengono elargite a piene mani come doni preziosi le giornate più brevi e le notti più lunghe dell’anno, guardando per caso attraverso una finestra ancora aperta tra le quattro e le cinque di pomeriggio, può capitare di sentire il richiamo irresistibile della magia dei colori cangianti ogni attimo di un tramonto incipiente, e di ritrovarsi d’istinto già all’esterno un attimo dopo, una volta abbondonate le proprie occupazioni, di qualsiasi importanza esse siano. Tuttavia, chi già da un po’ di tempo abbia dovuto adattarsi suo malgrado a soluzioni lavorative spacciate a gran voce per assai intelligenti, e magari abiti anche in qualche periferia, per giunta di un piccolo centro, dove molte persone sono abituate sin dall’infanzia a esprimersi in maniera alquanto rozza o comunque assai spiacevole all’udito – un aspetto magari addirittura accentuatosi negli ultimi anni – chi dunque si trovi a vivere tutte insieme queste coincidenze infauste può avere talvolta la sventura di sentire quel meraviglioso momento di impalpabile confine tra giorno e notte mentre viene imbrattato dal dialogo colorito di qualche passante, sia esso impegnato in qualche importante telefonata di lavoro, o in un colloquio più informale con un compagno di strada. Non solo: a queste macchie vocali, metaforiche ma lo stesso maleodoranti, che sporcano il crepuscolo come il vino o il caffè su un capo bianco e fresco di lavaggio e di stiratura, si aggiunge spesso la risposta ancor più decisa di qualche quadrupede frustrato, nonché inflessibile guardiano della pace borghese della via dove abitano i suoi rispettabilissimi padroni e padroncini, naturalmente sostenuto in questa battaglia quotidiana e senza esclusione di colpi da molti altri esemplari della stessa specie, anche se spesso di razza diversa o meticci. Tanto che, a chi se ne rientri in casa a capo chino, sperando in un’occasione migliore per l’indomani, può capitare di chiedersi chi tra i contendenti abbia abbaiato veramente o di più, consolandosi nel frattempo con la delicatezza notturna di qualche trombettista jazz.  Anche se, terminato l’incanto di un concerto registrato a tarda sera in qualche metropoli, urge sedersi nuovamente a quel lavoro venduto come intelligente, in realtà fonte di nevrosi, isolamento e tutte le conseguenze del caso.

[dalla cartella “Diario del 2021“; riferimento a Live from the Moonlight del Chet Baker Trio (1985)]

 

 

L’autostrada vuota

L’autostrada vuota 

Poche ore fa, al concerto a Padova. Il batterista del primo gruppo fa passaggi così veloci che neanche si vedono le bacchette. Quello del secondo gruppo invece, esegue diverse parti stoner. A questo punto ti chiedi: “Siamo davvero nel 2021? O piuttosto cinquant’anni fa?” Ti interroghi un po’, ma nel frattempo un’ombra ti sfiora sulla schiena. Subito dopo, un’unghia ti bussa al fianco destro. “Eh? Ma chi è?”, ti chiedi girandoti, ma il buio avvolge la sagoma misteriosa, che un attimo dopo è già scomparsa. In realtà sei andato al concerto solo per sentire il basso. Per sentirlo scandire il ritmo del tuo cuore. E invece hai sentito molto di più! Mentre orecchini antichi si fanno soli, che presto vengono inghiottiti da un buco nero. I volti vecchi di milioni di anni di alcune stelle. Sulla destra del palco, un chitarrista giovane e talentuoso trova la sua strada, proprio nel 2021, proprio in Italia. Ricordo di notti dell’adolescenza, notti gelide e musica fino a tardi. La cantante è statuaria e porta una abito nero, come i suoi capelli. Degna di essere raffigurata nell’antico Egitto. Durante le lunghe parti strumentali, agita la testa a destra e a sinistra, e i capelli le coprono il volto ondeggiando. Ovunque ti guardi intorno, vedi corpi e volti di persone che assomigliano tantissimo a gente che conosci. E chi è quel ragazzo in pantaloncini e maglietta, che muove su e giù la testa al ritmo della batteria? Ti verrebbe quasi voglia di chiedergli chi è, dove abita, che vita faccia mai. Nel frattempo, due culi ubriachi, che gradiscono molto la musica, battono continuamente al vostro tavolo. Sono un culo maschile, bello grosso, e un altro femminile, di dimensioni più ridotte. Un bravo ragazzo di 27 anni, con gli occhi luminosi, i ricci scuri e una maglietta metal, è come rapito dal concerto. In certi momenti se ne sta immobile ad ascoltare, con la testa verso l’alto e gli occhi e la bocca spalancati, in altri frangenti muove anche lui la testa su e giù. “Se la situazione tiene, il nuovo album dovrebbe uscire quest’anno, altrimenti a inizio 2022”, vi dice questo ragazzo, che ha finito di lavorare alle nove e per arrivare in tempo al concerto si è fatto anche una corsa in auto.

Al ritorno vi ascoltate tutto un album dal sound violentissimo. Kiss Of Death, Night Of Violence, Make ‘em Bleed, Hunt You Down, così si chiamano alcune canzoni. Intanto percorrete un nuovo tratto di autostrada. Che è deserto. Non incrociate un auto che sia una. Superate solo qualche vecchio camion. E all’improvviso quell’odore acre, come di plastica o gomma bruciata. Nel cervello fa subito capolino un sospetto. Un sospetto cui non manca molto per diventare certezza.

[Sabato 17 luglio 2021 h 2:55 AM – senza ascoltare nulla – riferimento a Futurist di Alec Empire (2005); dalla cartella “Diario del 2021” – work in progress]

Fortuna che sto meglio di te!

Fortuna che sto meglio di te!

Estate, notte fonda, sono le due, o forse anche le tre. Fa caldo anche a quest’ora. Dalla strada filtra il rumore di qualche auto di passaggio e il miagolio di qualche gatto. Un uomo che vive da solo in un miniappartamento si sveglia. Forse ha sognato qualcosa, forse in sogno gli ha parlato la voce di qualche persona amata, ma non si ricorda. Si gira sul fianco destro, poi su quello sinistro, tentando di riaddormentarsi, ma gli occhi gli rimangono sempre aperti e si riempiono di buio come di un liquido nero. “Basta, io mi alzo, torno a letto dopo”, si dice l’uomo, perché in quel momento si sente sveglio come se avesse dormito sodo otto o anche nove ore. Si alza e per prima cosa va un paio di minuti sotto l’acqua fredda della doccia, poi si infila un paio di pantaloncini corti e maglietta, entrambi neri. Subito dopo, dal frigo tira fuori una bottiglia di succo di frutta industriale per rinfrescarsi un po’ bocca e gola, fa un paio di sorsi e infine inspira ed espira profondamente, prima piegando le braccia all’indietro, poi tendendole in avanti. Segue una sigaretta corretta con una spruzzatina d’erba OGM. Il nottambulo se ne torna in bagno e si guarda ad uno specchio decorato, che gli è stato regalato da un amico che ha ristrutturato un vecchio bar. “Dewar’s Finest Scotch Whisky”, c’è scritto sullo specchio, “Distillers, Perth, Scotland”. L’uomo si passa prima la mano sulla barba da fare sul mento e sul collo, poi diverse volte sui capelli bianchi, avanti e indietro. Spalanca gli occhi, avvicina lo sguardo allo specchio, sospira e poi a mezza voce dice “E così oggi sarebbero proprio 60, eh?”. “Ma sono contento, e sai perché?”, continua, parlando alla sua immagine allo specchio, “Sono contento perché sto meglio di te, molto meglio.” Un attimo dopo, l’immagine allo specchio scoppia in una risata crassa, che mostra per bene il palato e tutti i denti fino ai molari, e poi risponde con rabbia: “Tu non sai niente, non hai mai saputo niente di niente! Ti ho visto danzare allegro nel fuoco, sotto una luna color cremisi, l’oceano mormorava sulla spiaggia e faceva eco a rovine disabitate. Ormai dal cuore ti sgorga solo una luce fioca, mentre la tua ombra inghiotte tutto al tuo passaggio e rende gelida tenebra anche il mattino più radioso! Punisci tutti a ogni tua parola, sei un flagello che martoria l’anima e la carne, perché da quando eri giovane hai sempre peccato ogni giorno senza vergogna: non hai mai voluto essere felice! Che tu sia infelice per l’eternità!”

“Ok, ok, va bene, ho capito, dai, per oggi basta così, è anche il mio compleanno, ciao, a domani mattina”, risponde allo specchio il neosessantenne, che poi barcollando si avvia verso la camera da letto. Un attimo prima di addormentarsi, si chiede se poche ore dopo si sveglierà e rivedrà il giorno, ma la cosa non lo turba più di tanto.

 

[Dalla cartella “Diario del 2021” (venerdì 18 giugno) – riferimento al testo di Better Than You e di You Know Nothing dei Swans (1991); forse ispirato anche alla copertina del primo album dei King Crimson e a Mirror Mirror dei Candlemass (1988)]

Lost in time

Lost in time 

Domenica 25 aprile 2021 h 18:48 – ascoltando prima Blood On My Hands e My Last Sunrise dei Demons And Wizards (1999) e poi A Blessing Of Tears di Robert Fripp (1995)

Persi nel tempo siamo, dispersi.

Corriamo, ansimiamo verso il futuro, a rotta di collo. Corriamo verso una nebbia grigia, che si allontana a ogni nostro passo.

Dietro di noi si allontana anche il passato, il mondo di prima.

Terra di nessuno.

Ecco il nostro brave new world. Anni recenti sono già storia vecchia. Libri impolverati.

Camminiamo per campi riarsi, pieni di stoppie, con i raggi del sole che ci tagliano sulle schiena e sulle spalle. Su quei campi bruciano giorno e notte cadaveri, che rischiarano il buio di una luce sinistra. Le nostri notti, simili a sfere metalliche, enormi e vuote. Bruciano le certezze effimere del passato.

Iris sfioriscono chinando il capo. I petali si fanno nerastri.

Battono campane stanche e scrostate, mentre chiese sono piene di sonnambuli che vagano di qua e di là. Navate invase di nuvole di mosche, che ronzano e roteano continuamente gli occhi rossi. Il legno delle panche imputridisce e cade a pezzi a terra, sul pavimento coperto di polvere e cellule morte.

Bambini dagli occhi spalancati si guardano intorno e fissano il mondo in cui cresceranno. Poi guardano dritto negli occhi dei grandi, a cercare risposte nelle loro pupille, ma gli adulti tacciono, abbassano la testa e non vogliono raccontare.

(dalla cartella “Diario del 2021“, work in progress)

Il cappello di pelle nera

Il cappello di pelle nera 

Domenica 7 marzo 2021 h 16:22

Si può sapere che ti è successo ieri sera verso le sette? L’ultimo tratto di strada verso casa lo hai fatto in bici, con in testa un vero e proprio frullato di canzoni rabbiose da ascoltare subito, appena varcata la porta. Subito ti sei ascoltato Final Product dei Nevermore, 2005, con tutta quella doppia cassa e doppio pedale. Con quel refrain brevissimo, e We live in a time of revolution, una delle ultime frasi del testo. Subito dopo Born, sempre dei Nevermore, del 2005 anche quello, e infine Light-Years dei Queensryche, questa canzone metal del 2019 che da giorni ascolti almeno dieci volte al dì.

E che passaggi repentini ti fai in fatto di musica! Subito dopo aver saziato la tua voglia di pezzi metal rabbiosi, hai messo su Wunderbar di Wolfgang Riechmann, album del 1978. Musica bianca, azzurra e blu. Quella musica, quei colori, che ti ricordano tanto le poesie di Georg Trakl. Ascoltando l’attacco di Wunderbar, hai cominciato a chiederti cos’è rimasto di ieri, sabato, in compagnia prima a pranzo e poi in un locale allegro, economico e frequentato da tanti giovanissimi.

Wunderbar lo stai riascoltando anche adesso. Siamo ancora alla prima traccia, la title track.

Vi è passato veloce il tempo in quel locale birreria, anche perché siete arrivati verso le quattro e mezza e già prima delle sei il titolare sarebbe passato per tutti i tavoli a dire di andare via. Si e no un’ora e mezza dunque, ma tempo più che sufficiente a conoscere un po’ Valeria, una ragazza sui 35 anni, forse anche qualcosa di meno, vagamente punk, ma con stile. L’hai conosciuta tramite l’amico che ti ha portato in macchina fino al punto di ritrovo.

Adesso risuona Abendlicht.

Valeria è una ragazza alta, snella, e ieri in testa portava un capello di pelle nera, tirato un po’ all’indietro, con attaccata una spilla. Capelli scuri, un po’ mossi. Occhi castani, carnagione chiara. Indossava una giacchetta nera e pantaloni verde oliva, strappati sulle cosce e sulle ginocchia, con cucito sopra l’Union Jack. Ai piedi un paio di Converse All Star bianche e basse. Sulle spalle una sorta di collare di pelliccia color giallo paglierino. Parla molto la ragazza, è loquace, e tra un sorso di spritz bianco e l’altro continua a dire “Bombardieri su Beirut!”, come anche una sua amica, che le siede alla destra. Conversa molto anche con Sabina, una ragazza dai lunghi capelli biondi e lisci, quinto elemento della vostra combriccola di ieri pomeriggio. “Ti vedrei bene a qualche concerto punk a Berlino-Kreuzberg, alla fine degli anni ’80, magari”, dici a Valeria. Lei sembra prenderla bene.

È arrivato il turno di Weltweit.

Conversate tutti e cinque, dunque, e da quello che dice si capisce che Valeria adora ascoltare i CCCP, come anche gli Afterhours, o meglio “Gli After”, come li chiama lei. Con un po’ di sorpresa, capisci che la ragazza ha una figlia. Sennonché arrivano rapide le sei meno cinque e con esse l’ora di smammare, anche se c’è ancora tanta luce. Vi alzate e non puoi far a meno di notare che seduta c’è ancora una compagnia che spera di tracannare una caraffa di birra in quattro minuti. “Bombardieri su Beirut!”, continua la ragazza al momento di alzarsi.

Quarta traccia, si chiama Silberland.

Neanche un minuto dopo, vi ritrovate a chiacchierare fuori dal locale, tu, il tuo amico e Valeria. Lei insiste per andare a bere qualcosa a casa sua, ma dovete aspettare un’altra ragazza. Che si farà attendere un po’. Continuate a conversare allora, e Valeria dice che “Fa proprio schifo vivere così”. Poi vi parla di un suo amico che vive in Messico, e che da un anno è chiuso in casa. Vi interrogate su quando potrebbe tornare un po’ il mondo di prima, sì, per esempio i viaggi o i concerti dal vivo. O tutte e due le cose insieme. “Fino a tre anni fa ero una sbarbatella in fatto di musica”, continua la giovane, che poi però parla anche dell’amico che l’ha introdotta alla musica seria. “La musica di oggi fa quasi tutta schifo, basta che pensi a quello che ascoltano i ragazzi di vent’anni”, aggiunge, anche se il tuo amico non è tanto d’accordo. Con quella musica di oggi che fa tutta schifo, Valeria forse intende anche l’elettronica di cui vai pazzo tu.

Dopo Silberland arriva Himmelblau.

Come anche la settimana prima, nel frattempo sulla strada davanti al locale sfila intenso il traffico delle sei di pomeriggio e qualcosa. Una sfilata di SUV e auto di lusso che corrono. Ma che corrono verso chi o che cosa? “Ma che lavoro fa questa gente?”, vi chiedete, mentre ruotate la testa ora a destra, ora a sinistra. Finalmente, verso le sette, arriva anche l’amica che stavate aspettando. Il traffico si è già molto diradato. Si va tutti a casa di Valeria.

Oh, siamo già alla brevissima Traumzeit, il pezzo che chiude il disco di Riechmann.

Si va tutti a casa di Valeria? Forse no, perché almeno tu chiedi al tuo amico che guida di riportarti alla bici. Vi salutate con un sonoro “Ci sentiamo!” pieno di speranza – da lunedì ci rinchiudono di nuovo tutti in casa, avete sentito tante e tante volte anche ieri. Appena inizi a pedalare, cominci a macinare quella domanda: Cosa rimarrà di oggi? Appena varcata la porta di casa, la risposta non tarda ad arrivare. È buio ormai, e soffia un vento che è come una scopa che spazza via tutto. Forse è per questo che oggi hai dovuto ritrarre Valeria. Certo dopo una lunga digestione notturna.

È finita anche Traumzeit. Non è un caso che anche oggi tu ti sia ascoltato tutto questo disco di musica fatta come di marmo azzurro. Traumzeit, ovvero tempo di sognare. Chiusi in casa. Ci sentiamo alla prossima, gente.

[inedito; dalla cartella “Diario del 2021”, inserito anche nella raccolta “Ritratti” (forse il lavoro di una vita)]

Hot black isolation

Hot black isolation

Avevi appena compiuto diciannove anni, primi mesi di università. Un lunedì mattina prestissimo di dicembre, freddissimo. Ti alzi, ti lavi, poi ti vesti in fretta e vai in cucina a fare un po’ di colazione, ascoltando qualche notizia alla TV. Poi una corsa in bici verso la stazione, quando sembra ancora notte, a prendere il treno delle sei e mezza. Premendo forte sui pedali senti di sfuggita il fischio di qualche merlo e il miagolio di un gatto che cammina sul marciapiede. All’arrivo, in un attimo leghi la bici e poi vai a farti l’abbonamento nuovo. Sei un po’ in ritardo e facendo la fila pesti i piedi per terra. Infine un’altra corsa verso il convoglio, che parte neanche un minuto dopo che ci sei salito. Salvo qualche ritardo, anche stamattina alle otto e mezza sarai a lezione. La tua città è la stazione di partenza e sul treno c’è ancora poca gente. Poco distante da te, due studenti chiacchierano e si raccontano un po’ il loro weekend, mentre da qualche altra parte si sente suonare un cellulare. Stai per tirare fuori gli ultimi appunti, ma ecco che qualcuno ti saluta. “Ciao! Anche oggi su questo treno?”, ti dice Silvia, una ragazza che studia giapponese, e che dovrebbe avere uno o due anni più di te. Silvia non la conosci benissimo, ma vi siete incontrati già altre volte nella stessa circostanza. La ragazza è sul metro e 60 e porta i capelli biondi raccolti. È sempre vestita di scuro, un po’ da metallara, con gli stivali e la felpa dei Metallica o degli Opeth. Certe volte per cambiare anche dei Kraftwerk. Silvia si siede anche lei, un po’ vi parlate, ma siete appena alla prima stazione appena dopo la partenza. Poi lei tira fuori il suo lettore CD portatile futuristico per l’epoca e ci infila dentro un compact che non avevi mai visto. Tenti di concentrarti sugli appunti e su qualche schema, ma quello che senti non è uno dei soliti ascolti di Silvia. Non senti nè chitarra distorta nè batteria che pesta. Spazientito, alla seconda stazione dopo la vostra città le fai un cenno e le chiedi “Di chi è questo album?”. “Non è un album”, ti risponde lei dopo essersi tolta le cuffie, “è un EP di quest’anno, con la ex moglie di Phil Anselmo alla voce e alla chitarra. Dai, lo ascoltiamo insieme, cosa vuoi metterti a studiare a quest’ora?”. Ed ecco che parte il viaggio musicale.

Da qualche parte in Louisiana, forse non lontano dal confine con il Texas. Non lontano si fa per dire, perchè qui le distanze sono enormi. Autostrade vuote. La notte è come una cupola nerissima che occupa tutto il cielo. Buio pesto, Luna nuova e neanche una stella. E fa caldissimo. Non tira un filo d’aria da almeno due mesi. Sì e no a trenta miglia dalla città più vicina, in un punto sperduto si vedono delle luci. Una casa isolata, in legno, con fuori parcheggiati due pick-up e due vecchie Cadillac, appena visibili. Dev’essere anche questa la Louisiana della canzone dei Litfiba. Un po’ di luce esce solo da due piccole finestre ricavate tra le assi che cingono l’abitazione. Avvicinarsi. Si sente musica venire come da sotto. Nel piano interrato c’è uno studio di registrazione privato. Phil Anselmo è seduto a un tavolo scuro, di legno massiccio, e beve a gran sorsate un bicchierone di distillato clandestino, di quello che ti spacca la gola se non sei abituato. Vicino al bicchiere c’è una scatola di grossi sigari, come anche una bottiglia mezza vuota di whisky di puro malto. Poco distante da Phil invece, è seduta la sua ex moglie Stephanie, circondata dagli altri membri dei Southern Isolation. La cantante hai i capelli biondi, ma gli occhi scuri, e sul braccio destro porta un tatuaggio nero. Rossetto scuro. Nere ha anche le unghie, lunghe appena un paio di millimetri oltre i polpastrelli. È vestita di scuro. Atmosfera cupa. Le luci sono basse, c’è fumo, e la donna sta facendo l’ennesima prova di registrazione dell’EP che porta lo stesso nome della band. Stephanie quasi si spacca le mani sulla chitarra acustica, e intanto canta di nuovo il testo di Bluebird, la prima traccia del disco, il biglietto da visita del gruppo. Che deve essere perfetto. Ore e ore prima, tutta la band insieme ha deciso che quella sarà l’ultima notte in cui si registra. O la va o la spacca. Allora prova e riprova la cantante, suona, si interrompe, impreca. Stephanie ha la fronte sudata, le mani le fanno male, ma gli altri musicisti la incoraggiano.

“Take the moths off and breathe them in your mouth/ Dress you up in violet clothes, just take you to the sun/ And hide you from the rain, take you to the trees and all your dreams./ Lost you somewhere in the sky…. /”, dice la prima strofa.  “Gonna make you shine, so beautiful tonight/ Gonna make you shine, so bright tonight”, questo invece il testo del refrain.

“Dai, fatti due minuti di pausa e beviti un goccio anche tu”, le dice l’ex marito, ma lei rifiuta, è come in una fase ascetica. Nel frattempo sono passate ore. “Ma cos’è questo rumore che viene da fuori?”, chiede Stephanie. “Piove! Piove!”, le rispondono uno dopo l’altro gli altri membri della band. Gli occhi della cantante si illuminano. Parte un’altra prova, e adesso alla moglie di Phil le mani non fanno quasi più male. La voce le esce naturale come non mai, mentre il testo va perfettamente a ritmo con la musica. Dalla tastiera colano gocce di rugiada. “Yay!”, esclama Stephanie una volta finita la registrazione, “We made it!”, e subito dopo si alza trionfante, con le braccia tese verso il soffitto. Da fuori viene rumore di tuoni e di un acquazzone. I cinque i musicisti salgono rapidamente al piano terra e poi si buttano sotto la pioggia fittissima. Saltano, ballano, incuranti dei fulmini che potrebbero beccarsi in testa. “Southern people we are!”, cantano tutti, quasi in coro, sotto il temporale.

[2021; inedito; riferimento all’EP omonimo dei Southern Isolation (2001)]

Ognissanti

Ognissanti

Il crepuscolo del giorno di Ognissanti è stato un occhio, il sole rosso e freddo il suo iride. A est il vento preparava il temporale e le nuvole coprivano la metà esatta del cielo, neanche ci fosse passato in mezzo un coltello. Lungo un viale alberato del centro storico, sotto vecchie case dalle mura affrescate, sono passate una tromba e una fisarmonica a caccia di elemosine. Hanno camminato sul prato rosso del sintetizzatore che stava ascoltando uno degli inquilini di quelle vecchie case. Dai balconi è saltato dentro gli appartamenti il ricordo di quando in centro passava ancora la banda, di quando manine ancora troppo morbide per schioccare hanno applaudito per la prima volta, senza capire bene cosa fosse quella cosa così bella che si sentiva nell’aria. Dall’ultimo piano invece è scesa in strada una pioggia di monetine e subito dopo un’infinità di grazie ha fatto il percorso inverso. Ascoltare i musicanti senza vederli ha fatto dimenticare la ferocia dei loro sfruttatori.

Poi è cominciata la pioggia, l’occhio si è bagnato e la tromba e la fisarmonica sono svanite dietro l’angolo, lungo la discesa che porta in piazza. La gattina rossa che da un balcone miagolava giù verso i musicanti è balzata in salotto per non beccarsi una zaffata d’acqua. Le imposte si sono chiuse tutte insieme.

Adesso è buio e l’occhio si è chiuso, è calato il sipario sul giorno. Lo spettacolo è finito. Anzi no, lo spettacolo continua dentro, dietro palpebre da cui pendono lunghe ciglia.

[2013; dalla raccolta di racconti brevi “Una domenica di tanti anni fa” (2016); scritto ascoltando Equinoxe di Jean-Michel Jarre (1978)]

“Voglio svegliare il mondo”

“Voglio svegliare il mondo”

“Ciao! Sono ancora cotto da ieri, Oggi ho praticamente dormito tutto il giorno”, ti dice un lunedì sera per messaggio il tuo nuovo amico Marco. Di Marco sentivi parlare da anni e anni, ma solo il giorno prima finalmente vi siete conosciuti. Vi siete conosciuti in montagna, ad un fiera della letteratura e delle arti visive, organizzata dalla responsabile di un’associazione culturale, che è letteralmente un vulcano di idee ed eventi.

Marco ha appena compiuto quarant’anni, è sul metro e 80, indossa scarpe, pantaloni e maglietta, tutti neri. Neri ha anche i capelli, un po’ lunghi, fin sotto le orecchie e la nuca. Solo qualche capello grigio. Occhi scuri, naso pronunciato, labbra spesse, viso dal colorito acceso. Il tuo nuovo amico combina la lettura di poesie con la performance. Tutt’altro che serafiche, le sue poesie parlano al pubblico e del pubblico, della nostra indignazione sterile o del nostro comodo guardare dall’altra parte. Leggi tutto

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