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Una di sinistra (oggi)

Una di sinistra (oggi) 

“Mi scusi! Mi scusi! Signora! Signora! Sì, sto parlando con lei!”, dice un giornalista televisivo, con in mano il microfono, seguito dal suo cameraman, mentre tenta di fermare per un’intervista una signora sui cinquant’anni, che è appena uscita dalla libreria più blasonata della città.

“Sì? Desidera?”, risponde lei, che prima si ferma e poi si avvicina rapidamente all’intervistatore.

“Buongiorno, siamo della TV locale, possiamo farle un paio di domande?”, esordisce l’altro, “Oggi ci hanno chiesto di intervistare le persone che escono da questa libreria. È d’accordo? Ha un minuto da dedicarci?”

“Ma certo, certo!”, risponde la signora, avvicinandosi ai due, “Io adoro essere intervistata e poter esprimere le mie opinioni! Prego, chiedete pure!”. Indossa un tailleur e scarpe di vernice, mentre sulla spalla destra porta una borsetta firmata, tutto di colore rosso acceso. Al collo porta una collana di perle, e poi tanti anelli su altrettante dita. Ha i capelli lisci e bruni, e sotto occhiali alla moda, con la montatura grande, rossa anche quella. Occhi castani e pelle chiara.

“Grazie, Signora, grazie”, dice il giornalista, che poi continua: “Vedo che ha appena comprato diversi libri, può dirci i titoli? Perché, a quanto ci hanno detto, questa libreria è frequentata soprattutto da donne, lei cos’ha da dirci in proposito?”

“Ma certo che è frequentata soprattutto da donne, perché le donne leggono molto di più e molto più regolarmente degli uomini! E io comunque i libri li compro sempre qui, nuovi, a prezzo pieno, mica vado ai mercatini di periferia… Comunque ecco, le faccio vedere… Per prima cosa mi sono comprata tutti gli Harry Potter che mi mancavano, con testo originale a fronte, naturalmente! E sono sicura che stasera me ne divoro almeno uno, tutto d’un fiato! Poi… Ecco qui, sì, l’ultimo di Fabio Volo, oh, ma che talento smisurato ha nel parlare di noi donne! Poi… Un momento… Poi ho comprato…”

“Mi scusi se la interrompo”, intercala l’intervistatore, “Ma qui tra le sue mani vedo anche Konrad Lorenz, e soprattutto Recalcati, Rovelli, Evangelisti, e addirittura Vogliamo tutto di Angelo Ventrone… Voglio dire, naturalmente senza offesa, tutti autori che non hanno mai fatto mistero di stare da una precisa parte politica, certo non a destra…”

“Dunque? Questo cosa vorrebbe mai dire?”, risponde la signora, un po’ stizzita, e battendo la scarpa destra sul selciato.

“Va bene, glielo chiedo direttamente, senza girarci tanto intorno”, risponde il giornalista, che insieme al cameraman ha subito notato quanto l’intervista abbia preso subito una piega inaspettata, e che subito dopo stampa in faccia una domanda secca alla cliente della libreria: “Ma allora lei è di sinistra?”

“Ma certo che lo sono, e non ho mai avuto nessunissimo problema ad ammetterlo davanti a chiunque!”, ribatte con sicurezza la cliente della libreria.

“Dunque è questo il motivo della maggior parte dei suoi acquisti qui oggi? E come mai anche il libro di Ventrone, che a dirla tutta tematizza il fallimento della sinistra extraparlamentare, ormai decenni e decenni fa?”

“Va bene, accetto la sfida”, risponde la signora, stando ben dritta sulla schiena, puntando i piedi a terra e guardando dritto nell’occhio della telecamera. “Lei dev’essere un po’ sprovveduto, e forse legge anche poco, come tutti gli uomini”, continua, “Il libro di Ventrone serve a riflettere sugli errori passati, e quindi a non ripeterli in futuro, non so se mi capisce…”

“Ah, però! La capisco eccome! E quindi forse capisco anche che lei non è solo di sinistra, ma anche politicamente impegnata, o sbaglio, Signora?”, ribatte il giornalista.

“Certo che sono politicamente impegnata, io”, risponde l’altra, “Mi batto per i diritti delle donne, anche per onorare mia madre, che era femminista convinta, mi batto per la parità di genere nelle istituzioni, lotto contro la vivisezione e per i diritti degli animali, anche in Paesi lontanissimi da qui, cerco di compensare i tanti mali del lavoro precario e della disoccupazione giovanile e non solo, combatto contro la diffusione dell’abuso di alcolici e della droga tra i giovanissimi, faccio appelli a favore dell’integrazione, soprattutto delle donne musulmane, perché anche loro trovino qui un lavoro ben pagato e si possano emancipare, mi impegno per mettere definitivamente la parola fine allo sfruttamento minorile nel Far East, sputo sangue ogni giorno perché tutte le dittature militari e sanguinarie del mondo diventino democrazie con metodi pacifici, combatto contro la persecuzione del popolo palestinese, do il mio sostegno in occasione di tante giornate mondiali, sono in contatto stretto e continuo con diversi sindacati, con tante associazioni di familiari di vittime del terrorismo e con altrettante associazioni che si battono contro le mafie, sostengo la rivoluzione green, la mobilità sostenibile e la riduzione progressiva dei rifiuti non riciclabili, finanzio generosamente ONG che ogni giorno traggono in salvo profughi e migranti, patrocino il dialogo tra le tre grandi religioni monoteiste, sono socia dell’Unicef, del WWF, dell’Agenzia ONU per i Rifugiati, di Amnesty International e di Medici Senza Frontiere, supervisiono progetti che mirano all’eliminazione delle favelas brasiliane e a dare un’istruzione ai bambini di strada in tutti i Paesi del Sud del mondo, combatto aspramente contro l’infibulazione e in generale contro la violenza sulle donne nei cinque continenti, negli Stati Uniti ho contatti che mi permettono di combattere la diffusione delle armi da fuoco e delle droghe sintetiche, faccio pressioni contro l’impennata dell’inflazione e a favore della crescita del potere d’acquisto di chi vive del proprio lavoro… ma queste sono solo alcune delle cause che mi stanno a cuore, non gliele dico tutte per non rubarle troppo tempo…”  

“Tanto di cappello!”, risponde l’intervistatore, che poi chiede alla lettrice assidua come riesca a mantenere fede a tutti quegli impegni.

“Ma che domande!”, ribatte l’altra, “Al giorno d’oggi l’impegno politico è tutto online! E così è anche molto più appagante! Quando mi arrivano certe piogge di like, commenti e condivisioni mi sento come se avessi un orgasmo! Ma lei cosa vorrebbe fare? Tornare a stampare continuamente volantini e giornali, in modo da dover abbattere ancora più alberi? Io sono una progressista! Lei invece a pelle mi sembra proprio un reazionario, oppure ancora peggio uno che non va neanche più a votare, ho ragione? Comunque, ogni sei massimo otto mesi consumo un Mac e anche un iPhone nuovi di palla, sa? E sono presente in tutti i social di questo mondo, non me ne perdo uno di quelli che escono ogni giorno! Ma in che mondo crede di vivere lei, invece?”, continua, mentre dalla borsetta continua a uscirle senza sosta un instancabile bip bip bip.

“Dunque davvero un impegno politico a 360 gradi, complimenti davvero!”, tenta di smarcarsi il giornalista, che poi chiede alla signora: “Ma lei lavora? Ha famiglia?”

“Mi scusi, ma come potrei essere così impegnata politicamente se lavorassi? Ho lavorato un paio d’anni nell’azienda di mio padre, sì, pace all’anima sua, poi mi sono sposata… Comunque mio marito è avvocato penalista, e abbiamo anche due figli… La più piccola va a scuola in un liceo privato solo femminile, abbiamo dovuto iscriverla lì per forza, perché la scuola pubblica cade a pezzi ormai… E soprattutto per evitare che a quindici anni si metta a bere vino e a fumare canne con brutta gente… Il più grande va all’università, privata anche quella, perché non vogliamo che fino a quarant’anni trovi solo stage non retribuiti, tutto il giorno a fare fotocopie e a pulire di qua e di là… Mio marito e io li abbiamo educati ai sani principi della sinistra italiana di oggi, perché dagli errori del passato c’è sempre da imparare… Comunque possiamo dire tranquillamente che tutto il mio impegno politico online è un lavoro vero e proprio, anche perché ho migliaia e migliaia di follower, e ormai sono considerata una influencer a tutti gli effetti”, conclude la signora, mentre le notifiche continuano a farsi sentire sempre più, senza sosta.

L’intervistatore fa per porre un’altra domanda, ma all’improvviso prende a sentirsi poco bene, come se la pressione arteriosa gli fosse calata repentinamente. Fa un po’ fatica a reggersi in piedi, mentre vede gli abiti e la borsa della signora tingersi di un rosa sempre più pallido. Tuttavia si fa forza, dopo aver notato che nella borsa dei libri c’è anche un volume scritto da un Papa che fu. “Mm… Tutto chiaro… Posso sapere però perché ha comprato anche un libro di Papa Benedetto XVI?”, chiede.

“Perché anche leggere le sue parole e le sue riflessioni è un orgasmo per me!”, risponde la militante di sinistra, “Come andare a letto con Cristiano Ronaldo! Mio marito sarà ancora un bell’uomo, ma finire a letto tutta la notte con un Adone come lui, uno che in amore di sicuro non scherza … Ah…”. La cliente della libreria di spicco sospira più volte verso l’alto.

“Scusi? Ha detto proprio “Cristiano Ronaldo”?”, puntualizza l’interlocutore, “Mi risulta che sia omosessuale…”

“Ma cosa dice? È bisessuale anche lui, come tutti! Come tutti noi, anche come lei! Essere bisessuali è uno dei nuovi grandi valori della sinistra italiana di oggi! Non lo sapeva? Bisex, trans, omo, lesbo, sono anche questi i nostri valori di oggi!”

“No… Eh… Non lo sapevo… Grazie dell’informazione…”, ammette l’altro, mentre si sente mancare le forze sempre più. L’intervistata non nota minimamente la cosa, impegnata com’è a rispondere ai messaggi. “Comunque… Comunque… Un libro scritto da un Papa, dunque… Lei è… Lei è credente? Va a messa per caso?”, chiede il giornalista, dove aver tossito due o tre volte. Ora vede gli abiti di lei farsi da rosa a quasi bianchi, sempre più chiari.

“Se sono credente? Se vado a messa? Se io e la mia famiglia andiamo a messa? Ma certo!”, ribatte l’altra, sicura come non mai. “Perché non dovremmo? Oggi sono tantissimi i punti di contatto tra valori cattolici e impegno politico a sinistra! E questa comunanza di valori fondanti porta molti più voti dalla parte giusta! Da noi che siamo i buoni, che ergiamo barricate e lottiamo strenuamente contro le guerre, il neoliberismo dilagante in tutto il mondo e lo strapotere delle oligarchie finanziarie! Comunque mio marito e i miei figli in chiesa ci vanno ogni domenica mattina presto, mettono la sveglia dopo essere andati tutti a letto alle dieci, io invece ci vado in tarda mattinata, perché spesso il mio lavoro online dura fino a notte fonda, per via dei tanti fusi orari… Ma cosa le sta succedendo? Non si sente bene?”, chiede subito dopo, vedendo l’intervistatore accasciarsi a terra.

Ora il giornalista ora vede la signora di colore completamente bianco, anche i capelli, il viso, gli occhi, il naso, la bocca, le mani e le gambe. “Non si preoccupi”, risponde con un fil di voce, mentre il cameraman appoggia il suo strumento di lavoro e compone il numero dell’ambulanza. “Ho il piacere di annunciarle….  che la sua intervista verrà trasmessa inte… integralmente….  stasera stessa…”, dice, respirando con la bocca.

“Ma è sicuro di star bene?”, ripete l’intervistata mentre le suona il telefono, “Mi scusi, ma io adesso devo proprio scappare, il mio impegno mi chiama! Mi stia bene! E grazie! Viva la sinistra italiana di oggi!”

“Grazie a lei”, sono le ultime parole che il giornalista butta fuori a fatica. Ora vede tutto bianco, come se fosse diventato cieco, e subito dopo sviene. Mentre si sente avvicinarsi la sirena del pronto soccorso, la signora di sinistra cammina verso la sua casa in pieno centro storico, dove ha il suo ufficio arredato con mobili di design, da cui in tutto il mondo si irradiano tutti i suoi appelli online. Intanto conversa al cellulare con un’amica, anche lei politicamente impegnata. “Samantha? Samantha? Sono io, Ellena! Sei dall’estetista o posso parlarti un minuto? Sapessi, sapessi, sapessi cosa mi è appena successo!”, dice entusiasta, “Mi hanno intervistata! E stasera mi vedrai in televisione! Intervista integrale! Lo sai che io adoro parlare e poter esprimere tutte le mie opinioni a getto continuo, anche per strada, anche al primo venuto! Io adoro parlare, parlare e ancora parlare… Registro dalla TV e poi metto tutto sui social, aspettati un vero e proprio diluvio di commenti e di like! Oh, che gioia! Mi sento già pizzicare tutti i nervi! Sono tutta un fremito!”.

[2023-24, inedito tratto dalla cartella work in progress “Ritratti”]

© Alessandro Corrado Baila 2024 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

Campane di smeraldo – extended mix 2024

Campane di smeraldo (extended mix 2024)

Il lavoro in catena di montaggio è sempre uguale a sé stesso. In più adesso si lavora quattordici ore al giorno tutti i giorni solo per avere i soldi per tirare avanti appena. Delle ultime ferie ci ricordiamo a fatica, i giovani poi continuano a chiedere con insistenza che roba saranno mai state le vacanze, ti chiedono cos’è il mare o cosa sono le montagne, o ancora cos’è la neve. In pensione non si va più, l’età sfiora ormai gli ottant’anni, tanto che diversi operai ultrasettantenni schiattano regolarmente in fabbrica, chi di infarto, chi di ictus, chi di qualche brutto incidente. Oppure dopo essere venuti lo stesso regolarmente al lavoro, pur sapendo di essere malati. Per avere i soldi per curarsi. E quindi privandosi di quelli per mangiare. Sono questi i privilegi di chi oggi ha la fortuna di avere ancora un lavoro.

La sanità pubblica non se la ricorda quasi più nessuno. E lo Stato sociale? Ah, beh, tutto andato a puttane pure quello, così tanti anni fa che la cosa sta già nei libri di Storia, scritti da chi con il sudore della fronte si ostina con tutto sé stesso a credere che esista ancora veramente il tempo. Oh, che sia chiaro: sono tutte riflessioni notturne, in ore rubate al sonno e al riposo dopo tutto quel lavoro.

Per fortuna però sono tempi moderni, ma moderni assai, e non c’è più quella fastidiosa sirena dal suono acuto, che sancisce la fine della giornata lavorativa, quando fuori è già buio da un pezzo, anche d’estate. Adesso ci sono le due campane di smeraldo della chiesa sconsacrata di fronte alla fabbrica, che con i loro battiti lenti e cupi annunciano che è di nuovo tempo di dedicarsi a sé stessi. Il loro suono verde scuro ricorda i tempi lontani in cui c’erano ancora alberi e qualcuno credeva ancora in Dio, che ora invece è solo uno scheletro muto, proprio come la maggior parte dei capannoni industriali.

Tempo di dedicarsi a sé stessi dunque, magari cambiando aria. Ma come fare? La periferia industriale è immensa, si estende per centinaia di km in lungo e in largo, e c’è gente che ride in faccia agli stranieri che raccontano di città con un centro storico. Per vedere un paesaggio diverso bisogna guidare per ore e ore a tutta velocità, ma una volta arrivati al confine è già tempo di tornare al lavoro in fabbrica. Questa però ormai è solo una leggenda, perché nessuno degli operai ancora vivi ha mai fatto il viaggio. È tutto un vivere in anni surreali, tanto che se ne pronunci il numero senti un senso di vuoto spinto, una totale mancanza di significato. Tempo di pensare e ripensare comunque ce n’è poco, anche perché nei nostri anni i pensatori sono davvero sgraditi, anche quelli che abbozzano solo una mezza idea ogni tanto, e magari proprio per questo si distraggono dalla linea di montaggio o qualche altra macchina, che dà lei il ritmo a noi. Sono loro che ci dicono cosa fare quando. Capireparto non ce ne sono più da anni e anni, non servono più, adesso ci sono le macchine che pensano a tutto, e l’unico pensiero, l’unica fissazione che ci concedono è produrre, produrre e ancora produrre altre macchine. È successo più di una volta che qualcuno è stato beccato una, due e poi anche tre volte a pensare cose diverse – ed è finito per strada. Che è come dire che è stata la fine. Altri operai, soprattutto quelli più anziani, sono stati beccati più volte con il fiatone, o a dire “Non ce la faccio più! Basta!”. A loro è toccata la stessa sorte. Perché le macchine comunicano tra di loro, anche a centinaia di km di distanza, senza bisogno di cavi né reti, e chi è stato cacciato da una fabbrica può star sicuro che poi troverà solo porte chiuse.

Poco importa però se la periferia industriale è solo un deserto da decenni, perché lo sfacelo e il silenzio fanno sembrare infinite le strade e hanno reso ancora più imponenti le centinaia di scheletri di vetro, acciaio e cemento. Per questo dopo il lavoro non rimane altro da fare che andare a procurarsi del cibo industriale a prezzi esorbitanti, in punti vendita dove non lavora più nessun essere umano, e poi chiudersi in sé stessi dentro case fornite di tutto l’occorrente per non uscirne mai, se non per andare a lavorare.

(tratto dalla cartella inedita “Racconti riscritti e rifritti”; scritto in origine nel febbraio 2013, ascoltando i primi minuti di Logos Live dei Tangerine Dream, Londra 1982, e contenuto nella silloge di racconti premiata “Una Domenica di Tanti Anni Fa”, Roma 2016)

© Alessandro Corrado Baila 2024 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale,  a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

 

Eros freddo (nuova versione 2024)

Eros freddo (nuova versione 2024)

Una notte di Capodanno di diversi anni fa, una nebbia fitta e gelida mi ha baciato senza posa lungo il cammino verso un locale ancora aperto. Sul marciapiede passeggiava avanti e indietro la Regina della Notte, vestita di ghiaccio e con i tacchi a spillo. Ad un incrocio vuoto e assurdo, dove un semaforo lampeggiava per nessuno, uno straniero mi ha chiesto uno dei mille perché dell’universo. Poi, subito dopo la mia risposta impeccabile, è di nuovo scomparso nella nebbia. Sono entrato nel locale, quindi, ed ero l’unico cliente. Ho chiesto un drink, che ho consumato da solo a un tavolino da quattro persone, seduto ben comodo su cuscini nuovi e imbottiti. Il locale era stato del tutto rinnovato di recente. Il battito del cuore mi rallentava, e sentivo che il tempo si dilatava sempre di più, tant’è che quel long drink mi deve essere durato anche più di un’ora. “Si chiude”, mi ha detto il barista, una volta fatto l’ultimo sorso. Saranno state le undici e mezza di sera. Ho pagato, ho salutato e di nuovo sono uscito, camminando a zonzo, avanti e indietro, a destra e a sinistra, per gustarmi appieno tutti i baci della nebbia. Senza incontrare veramente nessuno, solo sentendo ogni tanto passi o parole sommesse dall’altra parte della strada. Viste attraverso la nebbia, le poche auto lente di passaggio, sembravano tutte scassate, come fatte di carta pesta, con le ruote addirittura fatte di chewing-gum. Le sentivo incedere a fatica, neanche avessero avuto tutte le gomme bucate. Non avevo l’orologio. E i botti? Li ho sentiti solo in lontananza, tanto mi sentivo amato dagli abbracci della nebbia. Forse ho vagato per ore e ore, ascoltando i rumori rarefatti del buio, e i passi della Regina della Notte, che più volte mi ha chiesto se cercavo compagnia. Certo l’ho guardata, lei, bellissima, ma non le ho mai risposto. Una volta davanti al cancelletto di casa, era già la prima alba dell’anno nuovo.

[versione 2024 del racconto omonimo, contenuto nella silloge premiata “Una Domenica di Tanti Anni Fa” (2016)]

© Alessandro Corrado Baila 2024 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

La città dei sordi (nuova versione 2024)

La città dei sordi (nuova versione 2024)

Un mio amico che ha quasi dieci anni più di me mi ha raccontato che, quando io ero un ragazzino e lui invece aveva già più di vent’anni, di notte qui nella nostra città arrivavano spesso in moto dei tipi tutti strani che si fermavano nelle zone più degradate e si mettevano a gridare “Perché?” a squarciagola. Capitava quasi sempre nelle notti d’inverno, mi ha riferito il mio amico, quando faceva freddissimo e spesso c’erano anche la neve o la nebbia. Quei tipi con la faccia tutta piena di cicatrici e vestiti di nero da capo a piedi arrivavano tutti insieme facendo rombare i motori, poi si fermavano e con lo spray rosso e nero scrivevano “Perché?” sui muri, soprattutto su quelli delle case e delle fabbriche abbandonate. Quasi sempre scrivevano “Perché?” e basta, ma anche “Perché la guerra?”, “Perché vivere così?”, oppure “Perché la violenza?”, o ancora “Perché le mafie?”. Lo scrivevano bene in grande, e intanto gridavano il loro tag a più non posso. Poi risalivano in moto, facevano rombare i motori tutti assieme, e sempre insieme andavano a fare la stessa cosa in un’altra zona degradata, dopo essersi lasciati dietro una lunga scia di gas di scarico.

Certo gli abitanti della nostra città li sentivano di notte, li sentivano eccome. A quelli che si affacciavano alle finestre per mandarli via a male parole, i motociclisti urlavano addosso le stesse cose che scrivevano sui muri, ma in cambio ricevevano solo insulti.  Il giorno dopo, i giornali e la gente comune li liquidavano come tossicodipendenti o sbandati, o anche come psicopatici da sbattere in manicomio.

Qualche volta, tornando da scuola in bicicletta, oppure in auto con mamma e papà da qualche visita ai parenti la domenica sera o durante le Feste, alla luce dei lampioni mi capitava di vedere murate lunghe decine di metri, tutte coperte di quei “Perché?” furiosi. Immaginavo anzi che le bombolette spray grattassero sul cemento, tanto rabbioso doveva essere il gesto di quel chiedere e chiedere senza posa. “Ma chi è stato?”, dicevo allora, una volta di ritorno a casa, oppure ancora in auto. Mia madre mi rispondeva sempre con sufficienza, mi parlava degli sbandati c’erano allora come sempre, e da ultimo mi raccomandava sempre di pensare a studiare e ad andare bene a scuola. “Hai fatto tutti i compiti per domani invece?”, aggiungeva quasi sempre. Mio padre invece, che aveva cominciato a lavorare a quindici anni, mi rispondeva che dovevano essere stati i soliti voglia di far niente, perditempo e fan della moda della bomboletta spray, che presto sarebbe finita come tutte. Le stesse teste calde che lui aveva conosciuto nella Milano degli anni ’70, bravi solo a parlare e a fare danni, e che si alzavano a mezzogiorno se andava bene, perché erano tutti disoccupati cronici. “Quelli lì è gente che va in giro a bere tutta la notte, e più bevono più gli si scaldano la lingua e il cervello”: così me li aveva ritratti una volta. Dopo aver sentito risposte del genere due e o tre volte, le mie domande sugli “scarabocchi dei drogati” sarebbero presto state zittite con tono autoritario: “Smettila! Basta! Ma non lo capisci che noi due vogliamo solo il tuo bene?”.

Di giorno nessuno sapeva dove fossero tutti quei motociclisti, forse andavano a nascondersi in qualche luogo buio per preparare la spedizione successiva. Si sa, la gente comune non ama le domande difficili, la gente vuole essere lasciata in pace e farsi i fatti propri, non ha certo a cuore i grandi ideali come il bene e la pace. La mattina presto le scritte che erano state tracciate dai motociclisti poche ore prima sembravano appartenere ad un altro mondo, e di solito incontravano solo lo sguardo fugace di chi stava correndo al lavoro, o indifferenza, o ancora venivano etichettate come bravate da writer adolescenti, nonché asini a scuola.

Anche di giorno però, le persone che abitavano nelle case da dove si sentivano gridare i motociclisti, non stavano meglio dei biker stessi, mentre di notte con lo spray scrivevano dappertutto “Perché?”. Le persone che abitavano in quelle case avevano solo rimosso alcune domande, avevano solo scelto di non chiedersi certe cose e di non immischiarsi in certe faccende per avere una famiglia, un lavoro e una vita che consideravano normale.

Questo è quanto mi ha riferito il mio amico. Nel frattempo, già da diversi anni, tutte le scritte sono state cancellate, e nella nostra città non c’è più nessuno che fa domande strane, scomode, il che giova grandemente agli affari e alla nostra ricchezza, che da tempo continua ad aumentare a dismisura. Le case e le vecchie fabbriche che una volta erano vandalizzate di “Perché?” sono state abbattute e sostituite da centri direzionali moderni e parchi commerciali videosorvegliati a ogni centimetro quadrato.

I motociclisti invece non si sono più visti né sentiti. Ufficialmente sono stati tutti arrestati e incarcerati, uno per ogni penitenziario del nostro Paese, dal Nord all’estremo Sud, o rinchiusi a vita in qualche ospedale psichiatrico. Della loro incarcerazione a vita poco o nulla importa agli abitanti della nostra piccola e ridente città, tranne a qualche noioso contestatore a vita, con la barba sempre da fare, i capelli arruffati e la sigaretta accesa a tutte le ore, che dietro ai suoi discorsi rivoluzionari nasconde tutti i vizi di questo mondo e mostra ben poca voglia di lavorare e contribuire al benessere economico del nostro ridente gioiello di laboriosità. Non certo il tipo di persone che ci piacciono qui insomma, e la Polizia fa bene a far loro il quarto grado ogni volta che li becca per strada. Perché non li sbatte direttamente qualche mese al fresco a mettere la testa a posto?

Fatto sta che, poche settimane fa, l’amico che mi aveva raccontato la storia dei motociclisti armati di vernice spray mi ha detto che la nostra è la città dei sordi. Cosa voleva dire? Non ha voluto spiegarsi meglio. “Si capisce da sé”, ha continuato. È diventato anche lui un contestatore, un essere inutile al progresso e alla collettività? Il mio amico mi ha anche detto che vuole andarsene da qui, perché per lui nella nostra città l’aria si è fatta irrespirabile. Da allora ho tagliato quasi ogni rapporto con lui, mentre ho molti nuovi amici, con cui la conversazione mi è molto più fluida e l’intesa a dir poco fulminea. Comunque sia, se il mio ex amico invece ha intenzione di andarsene prego, se ne vada dove vuole e ci stia anche tutta la vita, non sarò certo io a fermarlo.

[2024 – nuova versione di “La città dei sordi”, racconto contenuto nella raccolta di viaggi musicali “Autostrada per la follia“, ed. Alter Ego, Viterbo 2017 – riferimento al testo di Why degli Enigma (1996)]

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Rumore rumore solo rumore

Rumore, rumore, solo rumore 

Ieri, verso sera, mentre piovigginava acqua fredda, ho creduto davvero di parlare con diverse persone, anche di argomenti molto diversi, come spesso accade nella comunicazione verbale, quando nessuno si lamenta o ha da ridire se di punto in bianco si cambia del tutto il tema della conversazione. Di nuovo mi ero abbandonato tutto me stesso a una folle illusione! Stamattina, dopo aver dormito sodo (almeno una volta ogni tanto), ho sorseggiato un po’ di caffè e ho ascoltato un po’ di smooth jazz italiano. Ed ecco, la caffeina mi è entrata subito in circolo, dritta nel cervello, e mi è stato subito chiaro che altro non avevo sentito e io stesso altro non avevo detto che rumore, rumore e ancora soltanto rumore. Oppure un ronzio continuo, come quando abbiamo un raffreddore forte e le orecchie tappate. O come quando tentiamo di parlare al telefono con qualcuno, ma la linea è molto disturbata, e non sentiamo che mezze frasi interrotte, o parole smozzicate e pressoché incomprensibili, tanto che spesso chiudiamo la conversazione con un “Ti richiamo più tardi, qui non c’è campo”. Il massimo della conversazione era stato quel fossile vivente e assurdo del festival della canzone italiana, oppure i titoli della Gazzetta dello Sport, resi sempre più eclatanti come misura di contrasto all’oblio più nero del giorno successivo.

Prima di tornarmene a casa, mi sono fermato un paio di minuti a guardare le persone con cui avevo parlato, come anche quelle di cui avevo carpito per così dire qualche stralcio di “dialogo”. Ed ecco che molte di loro mi sono apparse come prive di maschere e abiti come status symbol, anzi, divise in diversi tagli di carne più o meno pregiati e gustosi, neanche fossero stati bovini da macello. Dalle parti da stufare o con cui preparare un arrosto succoso per i giorni di festa in famiglia, passando per le semplici fettine, che si cuociono rapidamente in padella, con un filo di olio di oliva, rigorosamente extravergine e di provenienza certificata. Molti avrebbero meritato di portare davanti e dietro un bel cartello con scritto bene in evidenza “Io sono in vendita! Chi offre di più? Fatevi avanti!”. Il cervello però non l’ho visto a nessuno di loro, forse perché era stato sostituito da un vuoto mentale che più spinto non si può. Un aspetto tipico della regressione alla condizione di animale, assai frequente nei nostri anni. Ahimè, davvero un peccato per chi ama arricchire una semplice zuppa di verdura con un bel pezzo di sostanziosa materia grigia!

“Dunque, che fare?”, mi sono chiesto, quando il sole si era già alzato per bene. “Rifugiarsi nelle quattro mura domestiche e nelle amicizie online? Sentire le persone a distanza, sempre protetti da uno schermo, potendoci spacciare per chiunque, anche per l’esatto contrario di noi stessi, come ci insegnano a fare sempre più spesso, man mano che passano gli anni?”. Bah, anche no, perché prima era la TV, mentre adesso è il web, che dopo pochi anni altro non è diventato che una rete capillare di canali di scolo, sempre intasati, che straripano anch’essi di rumori molesti, immondizie musicali e sporcizia digitale, ma non per questo meno maleodorante.

[dalla cartella del tutto inedita “Diario 2024”, che continua anno dopo anno dal febbraio 2020, quando mai troverò un finale?]

© Alessandro Corrado Baila 2024 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

Comprami, io sono in vendita, e non mi credere irraggiungibile! 

 

Il salice piangente (nuova versione)

Il salice piangente (nuova versione) 

Un bambino vaga da solo per la villa dei genitori, tutta bianca: respira profumo azzurro d’infanzia e ignoranza dell’attimo appena seguente. Tutte le imposte sono aperte, e ovunque nella casa tirano afflati di vento color porpora. Dal parco tutt’intorno, la madre spia il figlio attraverso le finestre e i finestroni, mentre lui da una stanza all’altra cerca il padre, chiamandolo e ansimando sempre più, su e giù per le scalinate, correndo da una parte all’altra. La madre ha volto, braccia e busto di donna, ma dalla vita in basso è un tronco di salice, con le radici profonde metri e metri.

“Dov’è? Dov’è? Dimmi dov’è!”, le chiede il bimbo, battendole i pugni sul tronco nodoso. “Dimmi perché tutte le stanze sono vuote, vuote!”, continua, “Lo hai ucciso, vero? Lo hai ucciso tu! Sei stata tu, lo so! Lo so!”, e poi irrompe in un fiume di lacrime, che corrono giù, lungo il tronco.

“Calmati, figlio mio, calmati e smetti di piangere, ti prego”, gli risponde lei, accarezzandogli fronte e capelli, “Abbracciami e lascia che ti racconti. Tuo padre è stato molto, molto cattivo, e il frutto più amaro della sua malvagità è stata quella notte in cui ti ho concepito, mentre tutta la volta celeste era intessuta di mani scarnite, dalle unghie lunghissime, che con gli archi suonavano melodie assordanti. Mi ha violentata nella camera da letto a fianco a quella che sarebbe diventata la tua, tra il calore del fuoco, mobili intarsiati e canzoni d’amore. Più dolci erano le parole di quelle musiche, più me le sentivo penetrare nelle orecchie come un frastuono. Come gli aguzzini, che torturano i prigionieri ascoltando musiche sublimi. Mi sentivo stritolata dalla malvagità di lui. Non appena mi aveva aggredita, non riuscivo più a muovere nemmeno un dito, ero come paralizzata in tutto il corpo. Il cuore mi batteva fortissimo, ma non avevo la minima forza di tentare di divincolarmi da quella presa. Il suo respiro sul mio collo non era umano, era quello di una bestia che ha appena catturato una preda, e la tiene stretta con gli artigli, in attesa di divorarla viva. Tenevo gli occhi serrati per non vedere quell’incubo in un cui ero precipitata in un attimo, mentre lui tentava di baciarmi, mi scuoteva e mi urlava di lasciarmi andare, ma io lo pregavo, lo imploravo di fermarsi e di smettere di strapparmi i vestiti. Quando lui mi ha messo le mani sul seno, piangendo e singhiozzando gli ho detto e ridetto che non avrei raccontato mai nulla a nessuno se mi avesse lasciata stare. Allora mi ha preso a schiaffi in faccia e mi ha insultata con quella parola. “Certo che non racconterai niente! Lo dico io che non racconterai niente! Niente a nessuno! Ma chi ti credi di essere? Altrimenti te ne vai da qui, e ti sbatto in strada come una puttana! Secondo te crederanno a me o a te?! Crederanno a me, che ti ho accolta in questa villa per salvarti da quel nido di serpi della tua famiglia, o crederanno a te, che sei potuta venire a vivere qui anche solo con i tuoi quattro soldi in tasca?! Eh? Allora? Dimmelo, sgualdrina! Parla! È un ordine! Dimmi, cosa vorresti fare, tu? Eh?! Denunciarmi? Prenderti un avvocato magari? Ma se non hai neanche un centesimo per uno d’ufficio! Non sfidarmi, o per te finirà male! Sentito? E adesso taci e lasciati andare!”. Ora aveva la voce come quella di un demonio. Dopo che aveva saziato i suoi istinti bestiali e mi aveva insozzata di minacce, mi ha trascinato con la forza nella doccia con lui. Avevo il terrore che volesse di nuovo abusare di me, e invece sotto l’acqua ha come cambiato volto, mi accarezzava il viso, mi ha detto di amarmi come mai nessun’altra in passato, e che a noi donne piace essere prese con la forza. Ma io continuavo a piangere lacrime bollenti, che si mischiavano all’acqua. “Ti ho detto di non piangere! Smettila! Smettila! Ti ho già detto cosa ti succederà se non fai la brava!”, mi ha intimato allora, dopo avermi dato un altro schiaffo, così forte che mi ha quasi fatto cadere a terra. Era già tornato il suo volto bestiale. Poi ha preteso che dormissimo insieme. Di nuovo con la forza, mi ha fatto inghiottire un sonnifero. Ho tentato di resistere, di rimanere sveglia, chissà, forse per tentare di scappare, ma dove non sapevo. Ero così stremata da tutta quella violenza che sono crollata subito. Non avevo più lacrime. “Adesso dormi, amore, dormi, hai bisogno di riposare. Domani mattina capirai. Capirai che l’ho fatto per noi, capirai che l’ho fatto per amore”, mi ha detto lui, appena prima che mi assopissi. Eppure ho sognato. Ho sognato solo un colore: il nero. Per tutto il tempo che ho dormito. Era una notte di primavera, ma per tutto il tempo di quelle torture mi ero sentita gelare, come una prostituta aggredita per strada, la notte più fredda dell’anno. E quel gelo lo sento ancora, lo sentirò sempre. Ho sentito il momento preciso in cui il suo seme mi ha fecondata, e a quel punto ho sentito il gelo anche nella mia zona sacra. È stato come se tutto il basso ventre mi si fosse ghiacciato.”

“No, no, no! È tutto falso! Stai mentendo! Dimmi la verità! La verità! Dimmi perché lo hai ucciso! Era mio padre! Il mio papà!”, implora il bambino, che continua a piangere ancora più di prima.

“Ascoltami, figlio mio, e smetti di piangere, ti prego, perché io adoro il tuo sorriso”, gli risponde la madre, mettendogli le mani sotto il mento e sollevandogli lo sguardo, di modo che ora lui la guarda dritto negli occhi. “Perché mai dovrei mentirti proprio adesso? Tuo padre è sepolto ovunque in questo parco, anche appena sotto di noi. La nuova vita che mi ha riservato il giorno è la mia punizione, ma gioisco anche, perché di lui si nutrono le mie radici. È successo tutto stanotte, mentre colava quella pioggia freddissima e nera. Ero tanto ebbra di vendetta, che con la sola forza della mia mente ho fatto sparire ogni cosa nella villa, tranne quello che c’è nella tua stanza. Perché tutto mi ricordava sempre quella notte di dieci anni fa, mentre nella tua camera invece ho passato tanti momenti bellissimi. Per dieci anni ho sopportato quel cespuglio di spine, che mi cresceva dentro, ogni giorno di più, fin su in gola. Quanto ho dovuto fingere! Con i parenti, gli amici, la famiglia mia e quella di tuo padre! Tutte quelle foto insieme, tutte le menzogne che ho dovuto raccontare con il sorriso, quando invece sarei scoppiata in lacrime! Quando invece avrei voluto andarmene via, in capo al mondo. Ma ora finalmente è tutto passato.”.

“Ti odio, io ti odio!”, le risponde ancora in lacrime il bambino, battendo ancora più forte sul tronco.

“E invece io ti amo, figlio mio adorato, ti amo!”, ribatte la madre, “Perché tu sei stato il mio unico conforto. Sentirti crescere e parlarti mentre eri ancora dentro di me, e infine vederti uscire dal mio ventre, piangere di gioia, stringerti tra le braccia, dirti il tuo nome. E poi vederti crescere giorno dopo giorno, misurarti l’altezza, parlarti, insegnarti a parlare, vederti giocare e poi iniziare la scuola. Sentirmi dire da te che ti eri fatto degli amici. Con il tempo capirai. Ma ora vai, vai! Il mondo è immenso, i cancelli sono aperti e altro non attendono che vederti cominciare il tuo viaggio. La tua vita inizia veramente solo oggi, con questa verità che ti ho raccontato. Appena sarai in strada, troverai subito chi ti prenderà per mano e ti aprirà la via. Impara a vedere solo la via, perché così non troverai mai ostacoli tra te e la tua felicità. Io ormai sono condannata a vivere qui, alla mercè delle stagioni, dell’acqua e del sole, del caldo e del freddo. Ma tu vai, vai, figlio mio, e feconda il mondo con la tua mente luminosa.”

© Alessandro Corrado Baila 2023 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

[dalla cartella totalmente inedita “Diario 2023”, che dal 2020 prosegue anche quest’anno con “Diario 2024”]

 

 

 

A un incrocio ci separammo

A un incrocio ci separammo 

Fine dicembre, dopo Natale, limbo. La partita era andata male per la nostra squadra. 25 punti di stacco.

Tornando a casa in bici avevamo entrambi freddo. Portavamo abiti scuri e giacche a vento blu. Il freddo non ci preoccupava però, perché avevamo entrambi sedici anni ed eravamo azzurri e leggeri. Ci emozionavano le canzoni pop e rap luminose, azzurre e dorate. Ci emozionavano in maniera immediata. Senza stare a parlare di tecnica e di stile. Niente ancora sapevamo dell’infelicità dell’ascoltare musiche di venti o trent’anni prima. Silenzio e buio di una periferia dove non accade mai nulla.

Marco era un ragazzo alto e robusto, con i capelli neri fino alle spalle e gli occhi scuri. Io ero un po’ più alto, ma anche molto più magro, con i capelli corti e gli occhi castani. Marco non aveva ancora la barba, io invece la lasciavo già crescere.

Ad un incrocio ci separammo e ci dicemmo “Ciao! Alla prossima!”. Le ginocchia mi facevano male. Presto Marco si sarebbe perso in droghe sempre più pesanti. Oggi invece Marco sta bene. Suo padre mi ha detto che il figlio ha aperto con due soci un ristorante di successo non lontano da Barcellona. Marco non è più azzurro, ma non per questo è infelice, lo ha accettato e basta. O forse non si è mai accorto di aver cambiato colore.

Dicevo, quella sera stanca e blu mi facevano male le ginocchia. A casa mangiai qualcosa in velocità e poi mi misi subito a letto. Al buio, sotto la trapunta azzurra, mi sentii azzurro come non mai. Quella notte non ebbi bisogno di sognare nulla.

Quando avevamo entrambi diciannove anni, Marco faceva colazione con caffè, amaro e canna di erba olandese. Io invece mi perdevo anche per giorni nei colori brillanti di un CD che non avrei mai restituito. Sulla copertina del CD, la cantante era vestita come una specie di geisha e contraeva le labbra rosse in un sorriso artefatto. In alcuni brani la voce della cantante era struggente fino alle lacrime, in altri i suoni mi facevano contorcere dall’emozione.

Seguirono tre o quattro anni convulsi, anni in cui i nostri corpi e la sostanza delle nostre vite cambiavano rapidi come le nuvole con il vento. Finalmente mi comprai quel CD di musica dai colori brillanti.

Sono passati più di vent’anni da quella sera stanca e blu in cui Marco e io ci siamo detti “Ciao! Alla prossima!”. Ho provato tante volte a perdermi di nuovo nei colori brillanti delle musiche di quel CD che a diciannove anni non avrei mai restituito. Ci ho provato anche ieri sera. Il mio cuore però non riesce più a sopportare nemmeno l’ascolto di una sola traccia di quel CD. Sto scrivendo in silenzio. Da tempo non sono più azzurro nemmeno io.

[© Alessandro Corrado Baila 2019 – inedito tratto dalla cartella “Ritratti” – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto dell’autore]

Un salume qualunquista (versione 2023)

Un salume qualunquista (versione 2023) 

Il sapore di domenica mattina del prosciutto cotto. Prosciutto cotto, ovvero: ragazzini trascinati a messa per i capelli la domenica mattina, mito della rispettabilità borghese, ipocrisia, predica, pranzo della domenica in famiglia, e infine l’incredibile primitivismo dei programmi TV della domenica pomeriggio. Tutto questo mi è balenato per la mente qualche anno fa, mentre in una squallida e soleggiata domenica mattina occidentale masticavo a fatica un panino al prosciutto cotto, il salume più ipocrita e conservatore che esista.

È vero, ci sono anche salumi che politicamente stanno a più a destra del prosciutto cotto, come il prosciutto crudo e ancor più la bresaola. Più che conservatori come il prosciutto cotto però, il prosciutto crudo e la bresaola sono reazionari e tendono a promuovere riforme autoritarie dello Stato e della società. Se chiediamo ad un prosciutto crudo o a una bresaola cosa ne pensano del progetto di insegnare l’arabo nelle scuole pubbliche, questi due salumi non useranno mezzi termini, né esiteranno a dire che di altro non si tratta che dell’ennesima porcata voluta dai comunisti per fare un favore ai loro amici integralisti islamici. Alla stessa domanda invece un prosciutto cotto si sente imbarazzato e arrossisce, non sa cosa dire, perché vorrebbe sì essere schietto come un prosciutto crudo o una bresaola, cosa che però gli è severamente proibita dalla sua doppia morale. Il prosciutto cotto tenterà allora di ubriacare di parole l’interlocutore senza mai venire al punto, ribadendo l’ambiguità strutturale delle sue posizioni. Mentre infatti i salami, soprattutto quelli con l’aglio, vantano una lunga tradizione di lotte sindacali per i diritti del lavoro, e alcuni tipi di mortadella, in particolare quelle con i pistacchi, hanno tendenze decisamente libertarie o espressamente anarchiche, storicamente il prosciutto cotto si schiera alternativamente con tutti i salumi pur di mantenersi ben saldo sulla poltrona.

Oggi, in anni in cui si cercano prevalentemente piaceri facili da ottenere e veloci da consumare, si pensa prevalentemente al prosciutto crudo e alla bresaola da un lato e al salame e alla mortadella dall’altro come ottimi nel panino e nel tagliere, oppure accompagnati da abbondante vino, formaggi di malga, sottaceti di qualità, verdure sottolio e quant’altro. L’edonismo contemporaneo ha però il subdolo fine di farci dimenticare la storia recente del nostro Paese e il ruolo determinante che i salumi hanno avuto in essa. Da una parte infatti, il prosciutto crudo e la bresaola non hanno mai nascosto le loro simpatie per lo spontaneismo armato di estrema destra. Alcune varietà locali anzi si sono espresse dichiaratamente in favore del ritorno del fascismo in Italia e hanno sempre tributato il loro plauso ai regimi autoritari e dittatoriali che via via sono sorti nel mondo. All’estremo opposto, il salame e la mortadella non hanno mai preso una posizione chiara contro il terrorismo della sinistra extraparlamentare e il suo folle principio di cambiare un Paese in meglio con le armi e la violenza, e soprattutto senza avere un consenso diffuso.

In mezzo a questo conflitto di fazioni opposte sta storicamente il prosciutto cotto, che, manovrando a suo piacimento i salumi di entrambe le fazioni e manipolando il consenso dei consumatori, ha tratto un doppio vantaggio dalla cosiddetta “strategia della tensione”, e ha aumentato le sue vendite in maniera esponenziale, soprattutto tra chi parteggiava alternativamente per gli uni o per gli altri a seconda della convenienza del momento.  Da questo dipende in gran parte il successo delle salumerie dichiaratamente di centro e a conduzione familiare, nelle grandi città come nei piccoli centri. Sia nelle grandi città, sia nei piccoli centri del nostro Paese, alcuni salumi in vendita nelle salumerie dichiaratamente di centro sono stati protagonisti di un’ascesa senza precedenti nel mondo degli affettati, sia in fatto di consenso tra i consumatori, sia in fatto di vendite. Questo però grossomodo fino all’esplosione della crisi nel nostro Paese nel 2009, che ha visto la scomparsa o la concentrazione nei centri commerciali di tante piccole salumerie qualunquiste. Allora come oggi però, una strategia di successo garantito è sempre quella di posizionare un grande prosciutto cotto di prezzo medio-alto al centro del banco dei salumi, in modo da offrire immediatamente al cliente una scelta con cui non sbagliare mai.

In generale, per quanto sfiziosi siano e per quanto profonda e appagante sia l’estasi sensoriale che ci donano i salumi, quando li mastichiamo e poi li digeriamo non dobbiamo mai dimenticare le loro precise responsabilità storiche, anche perché il remoto anno di produzione di molti salumi dominanti nel nostro Paese li rende ormai inservibili. Inoltre, per quanto moralmente riprovevole sia il comportamento del prosciutto cotto, forse ancora più abietto è però l’agire di piccoli gruppi di culatelli, porchette, soppresse, ossocolli, lardi, finocchione, spianate, spalle cotte, presunti affettati dietetici, imitazioni ipercaloriche di salumi esteri e altri salumi minori, che senza alcuna vergogna corteggiano e a gran voce cantano le lodi di questo o quel prosciutto cotto maggiormente in voga sulle tavole degli Italiani a seconda della stagione politica, al solo fine di aumentare il fatturato delle rispettive salumerie di appartenenza, salvo clamorosi voltafaccia.

Tuttavia, rispetto a pochi decenni fa, oggi tutti i tipi di salumi o quasi sono stati assorbiti dalla produzione alimentare anonima di massa. Mortadella o bresaola, salame o prosciutto crudo o ancora prosciutto cotto che compriamo, oggi la stragrande maggioranza dei salumi che finiscono nella pancia dell’uomo comune contengono zuccheri, coloranti, conservanti, aromi artificiali ed esaltatori di sapidità, che nulla hanno a che fare con la loro schiettezza originaria. Inoltre, al di là delle dichiarazioni d’intenti, oggi nelle dispute tra salumi l’aspetto ideologico è all’acqua di rose, se non inesistente, mentre prevalgono chiaramente le lotte che mirano alla conquista di nuovi mercati esteri, all’aumento delle vendite e all’arricchimento tramite fondazioni e società finanziarie. L’unica alternativa credibile al redditizio compromesso tra salumi capeggiato dal prosciutto cotto è forse rappresentata dallo speck di maso, che ha però un bacino di consumatori molto ridotto e localizzato, e non può quindi competere con i grandi numeri degli affettati nazionali. È quindi di grande attualità la proposta simbolica avanzata pochi mesi or sono da un eminente prosciutto cotto alle erbe dell’Alta Toscana, che prevede di cambiare la forma del Gran Consiglio dei Salumi da semicircolare a circolare. Bando per sempre quindi a diatribe asperrime al chiuso, manifestazioni di protesta oceaniche e scontri di piazza tra fazioni solo apparentemente opposte, ma con tanto di resti di salame o di bresaola, tranci di mortadella piuttosto che di prosciutto crudo, che per oltre mezzo secolo sono rimasti sulle piazze d’Italia, a testimoniare quanto estremi fossero lo scontro ideologico e la lotta politica. Che dire? Dopo tanti decenni di ipocrisie e sofisticazioni alimentari, finalmente un prosciutto cotto con il gusto della sincerità.

[dalla raccolta di racconti “Una domenica di tanti anni fa” (2016) – abbozzato nel 2006 e poi arricchito nel corso degli anni]

© Alessandro Corrado Baila 2023 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

 

Il gelo del Nulla

Il gelo del Nulla 

Pochi minuti fa, mentre mangiavo in piedi un pomodoro intero appena raccolto, ricchissimo di acqua, vitamine e sali minerali, e quindi ottimo per la salute, soprattutto d’estate, alle mie spalle ho sentito all’improvviso il gelo del nulla. Un brivido simile a una scossa elettrica mi ha percorso tutta la schiena, mentre sul collo mi sentivo un alitare freddo. “Il mondo, tutto il mondo, si farà bianco, afono e inodore”, ho pensato, “Tutto quello che chiamiamo mondo. È arrivato il momento. Sparirà tutto: i colori, le voci, le emozioni, persone animali piante, il caldo, il freddo, la musica di ogni genere, i trapper, il lavoro, la voce tenera della radio di notte, il giorno e la notte, le città e le campagne, le case, le ville, i condomini, i vicoli come le autostrade, i profumi veri e le essenze artificiali, le donne, le suonerie insistenti dei cellulari, il cielo e il mare, le montagne e le pianure, i robot, l’intelligenza artificiale, l’insonnia e lo stress, i libri, il ronzare delle mosche e delle zanzare, le estati e poi gli inverni sempre più caldi, la crisi climatica, le grandinate distruttive, il pesce fritto, il cibo spazzatura, le persone cosiddette normali, l’inquinamento da plastica, i radiogiornali, i telegiornali, le malattie, chi parla senza dire nulla, chi sente senza ascoltare, l’ipocrisia, la povertà, le serie horror, i truffatori che telefonano dieci volte al giorno o che ti suonano il campanello a casa se non gli rispondi, i commenti sulle misere percentuali di crescita del PIL e delle Borse,  le guerre, finirà, scomparirà tutto! Tutto! Anch’io mi farò polvera bianca all’istante!”.

Dopo essermi detto tutto questo in un battibaleno, non ho più sentito quel brivido, né quel fiato gelido sulla nuca. Mi sono girato – e tutto era di nuovo lì, anche fuori. Le auto che tornavano dal lavoro, i passanti che parlavano al telefono, l’odore di ozono di un temporale in arrivo. Come se niente fosse stato. “Che sia stato un primo, piccolo avvertimento?”, mi sono chiesto. Certo è che, dati i nostri tempi di merda, a parte mezzo pomodoro non mi sarei perso quasi niente.

© Alessandro Corrado Baila 2023 – tutti i diritti riservati – dalla cartella del tutto inedita “Diario del 2023“, giovedì 20 luglio h 17:50

Ed ecco a voi un video esplicativo sui mille benefici del pomodoro, soprattutto se appena raccolto, il tutto narrato da una voce a dir poco inquietante, ma forse è solo un robot…

Ritorno al mondo interiore

Ritorno al mondo interiore

La mattina della Festa della Repubblica, quest’anno una domenica mattina di sole micidiale, auto spossate tornano lentamente da una notte di bagordi. A bordo hanno occhi stanchi e uno o più fegati affaticati, che muoiono dalla voglia di andare sotto le lenzuola, al buio e in un silenzio di tomba.

Lungo una strada laterale deserta e già violentata da una luce calda e chiara, una dozzina di lattine vuote di birra scadente prendono spiacevolmente il sole. Una dopo l’altra, come in un incubo, spuntano ovunque come funghi le esistenze domenicali più disparate.

Fuori da un bar che serve un pessimo caffè con latte scaduto, una ventina di ciclisti conversano simili a scimpanzé, mostrando bene al sole tutta la dentatura, molari compresi. Che dire? il sole non può che compiacersene. Vestiti di rosso, rosa, fucsia e bianco, i ciclisti sembrano un po’ un gruppo di soppresse con il filetto.

A pochi metri dai ciclisti, si ferma rombando una vecchia Porsche grigia, che emana puzza di gasolio e musica retrò, musica che sa tanto di nostalgia del paradiso perduto dell’infanzia. Dall’auto grigia scende un tipo sui 45 anni, baffuto, vestito di abiti chiari e leggeri, con in testa un cappello color sabbia. Il signore si siede sul cofano della sua Porsche vintage e fuma una sigaretta di tabaccaccio, non senza prima essersi assicurato che i ciclisti lo vedano e lo sentano. A quel punto, il gruppo di soli uomini con il pallino domenicale delle due ruote, prende a conversare ancor più animatamente. Parlando uno più forte dell’altro, anzi, uno sopra l’altro, i ciclisti fanno a gara a indovinare il remoto anno di produzione delle Porsche. Un anno che coincide con tanti e tanti ricordi di quanto tutto costava poco, almeno a sentire le loro fantasie regressive. Dal cofano della Porsche vintage, l’uomo sui 45 anni fa un cenno di saluto e poi riparte, soddisfatto di aver già raggiunto il suo misero scopo alle sette e mezza di mattina. Romba nuovamente il motore, e il signore di mezza età va in cerca di un altro posto dove esibire la sua auto puzzolente.

Eh sì, la pioggia è finita per il momento, è finita la musica dell’anima. Finalmente, dopo poche centinaia di metri, la porta di casa si riapre su un corridoio buio e su una musica scura, dove il canto gocciola su rose nere, che bevono avidamente freddo e notte. 

[2019, dalla cartella 100% inedita “Ritratti” (work ever in progress)]

© Alessandro Corrado Baila 2019 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

Ed ecco quella musica scura e balsamica…

 

Ubriachi (e ubriache) di politica

Ubriachi (e ubriache) di politica 

Oggi, anche in Italia, sempre più persone si ubriacano regolarmente di politica. Certo dal marzo 2020 in poi, ma anche da molto, molto prima. Il problema riguarda pressoché tutte le fasce d’età, escluse forse l’infanzia e la preadolescenza, con un’incidenza maggiore tra gli uomini (31,28%), mentre le donne si attestano su un 21,89%.  Pare che il problema sia davvero atavico, anche se l’individuazione esatta della nascita del primo italiano ubriaco di politica è di stretta competenza degli storici. A livello socio-sanitario invece, è importante dire subito che, a differenza delle sbornie da sostanze eccitanti o da denaro digitale, che danno un sollievo seppur momentaneo, l’overdose da discorsi a sfondo politico è fonte solo e soltanto di disagio. Detto altrimenti, se queste ubriacature si protraggono ravvicinate nel tempo, il cervello va incontro a un’intossicazione forte e progressiva, che coinvolge tutte le sue parti, e che è sempre più difficile da eliminare, man mano che le sbornie si susseguono costanti e sempre più intense. Più si procede con l’età, più alto è il rischio di assuefazione irreversibile. In molti casi, il soggetto è talmente ossessionato dalla sostanza tossica da non essere capace di pensare o parlare d’altro, e anzi da riuscire a tessere legami sempre più improbabili con la politica, anche quando il contesto e la conversazione ne sono del tutto estranei. D’altro canto, conversazioni e contesti privi di aspetti politici risultano fastidiosi, o comunque di nessun interesse. L’unico tipo di musica che il soggetto gradisce è quello con testi di carattere politico, dal cantautorato melodico al metal di denuncia sociale. In altre parole, la sostanza tossica domina completamente la vita psichica e tutto l’orizzonte mentale. Visto in una radiografia, l’encefalo di chi si sbronza regolarmente di politica appare quasi del tutto nero, intriso di una nebbia scura, estesa in tutte le aree.

Come nel caso di altri tipi di dipendenza però, i sintomi non finiscono qui: l’umore è spesso cattivo, rabbioso, oppure molto basso, frustrato, due aspetti questi che si alternano più volte a stretto giro nel corso anche di una sola giornata. Di questo è responsabile anche il flusso ininterrotto di informazioni trasmesse elettronicamente, con i loro continui aggiornamenti, che rendono presto vecchie tutte le notizie di poco prima, e tolgono qualsiasi certezza da sotto i piedi. In età giovanile, purtroppo anche scolare, i sintomi suddetti sono spesso il risultato della disillusione, che deriva dal consueto mancato mantenimento delle promesse elettorali, e quindi dalla frustrazione profonda di speranze come sempre mal riposte, o ancora dalla tragica constatazione di un Paese in campagna elettorale permanente. In età più avanzata invece – intendiamoci, a partire anche dai trenta o quarant’anni – le speranze, soprattutto quelle di miglioramenti radicali che non ci sono mai stati né ci saranno mai, lasciano il posto a previsioni unicamente cupe, talvolta addirittura apocalittiche. In alcuni casi, queste ultime contagiano spesso anche soggetti molto giovani, che sono soliti ubriacarsi di politica con persone molto più avanti negli anni. Tant’è che, anche nel nostro Paese, si registrano ogni anno decessi di ubriachi di politica, che di questa sostanza tossica erano preda anche da sessant’anni e oltre.

Anche se prevalentemente psichici, i sintomi delle sbornie da discorsi politici sono anche e soprattutto fisici. Parliamo di inappetenza, alternata a fame compulsiva di carboidrati e grassi nocivi, aumento di peso, debilitazione fisica generale, data anche da insonnia o comunque disturbi del riposo notturno. Se poi l’ubriacatura si protrae per diverse ore passate a parlare di politica, le orecchie prendono a ronzare, o addirittura si manifestano forti acufeni. Tuttavia, quanto detto finora non riguarda minimamente chi di politica vive, e ha quindi incarichi nelle amministrazioni locali, piuttosto che regionali o addirittura in Parlamento. L’intossicazione cerebrale, insieme con tutti gli altri disturbi psicosomatici, si riscontra infatti solo ed esclusivamente in chi svolge tutt’altro tipo di attività, e spesso deve cavarsela con poche risorse economiche, ottenute a fronte di un monte ore lavorativo esagerato e molto stancante. All’esatto opposto, più in alto svolazza la poltrona dove siede chi vive di politica, magari fin sopra le nuvole – e quindi irraggiungibile a chi invece sulla Terra deve vivere del proprio lavoro – più si dice pervaso di leggerezza e buon umore chi ci ha posato sopra il culo, naturalmente con l’intenzione di non alzarsi mai, a meno che non gli venga affidato un altro incarico, pagato almeno il doppio, tanto più redditizio quanti più disastri la persona in questione ha combinato.  In questi soggetti, la frequenza cerebrale è sempre ottimale, come anche il compenso ideo-affettivo. Il sistema nervoso centrale e quello periferico sono soggetti agli stimoli più vari, il sonno è lungo e sereno, e prevale la produzione di ormoni benefici. Al contrario, l’ubriaco di politica soffre spesso di una forte carenza di melatonina, anche molto prima della vecchiaia, e fa incubi ricorrenti. Nella stragrande maggioranza dei casi, il profilo ematico è compromesso da tossine in quantità massiccia, eccesso di acido urico, valori epatici fuori controllo e trigliceridi alle stelle. Alcuni ricercatori sospettano per questo un legame tra le ubriacature politiche e malattie quali epatite da una parte e diabete dall’altra. Certo è invece che l’attività sessuale si fa via via sempre meno appagante, a meno che tra una fase dell’altra del coito non si parli dell’argomento che ossessiona uno o entrambi. Negli uomini si riscontrano poi di frequente disfunzioni erettili, eiaculazione precoce, produzione decrescente di liquido seminale ed eccessiva acquosità dello sperma. Nelle donne invece, i sintomi sono spesso il calo drastico del desiderio sessuale, anche in età giovanile, nervosismo e battibecchi dopo il coito, e in casi estremi, menopausa a trent’anni o addirittura sterilità conclamata.

A oggi, mancano ancora del tutto sia farmaci specifici, sia soprattutto terapie e centri riabilitativi, che mirino per prima cosa a disintossicare e ripulire il cervello dalla sostanza tossica, e per secondo a restituire i soggetti a una vita normale, fatta di attività e stimoli diversi. Questo perché, a differenza di altre sostanze che danno dipendenza, qui l’agente responsabile del disagio è difficile, se non impossibile da catturare fisicamente, e quindi da eliminare. Finora, terapie del sonno, coadiuvate da farmaci ansiolitici o stabilizzatori dell’umore, hanno avuto efficacia solo momentanea. L’unico rimedio noto e di buona efficacia, è l’isolamento di almeno due o tre anni da comunicazioni audiovisive di carattere politico, a seconda della gravità della situazione. Questo però, a patto che il soggetto se lo autoimponga, dato che nessun altro ha il potere di farlo, nemmeno un giudice. Il suddetto isolamento è però una scelta di pochi, anzi, pochissimi, perché la maggior parte dei soggetti rifiuta di ammettere il suo disagio. Rimangono poi aperte due domande importanti: 1. In quale contesto sarà mai possibile reinserire i soggetti disintossicati, se ovunque nel mondo è sufficiente uno smartphone per ricadere repentinamente nell’ossessione? 2. Chi e come ha il dovere di assistere le famiglie dell’ubriaco cronico di politica, dato che questo disturbo è spesso responsabile della distruzione di tantissimi matrimoni, fidanzamenti e in generale dello sfilacciarsi delle relazioni interpersonali? Un vuoto legislativo questo, difficilmente colmabile in tempi brevi, basti pensare alle tante emergenze e alle mille tensioni sociali oggi in atto nel nostro Paese, che gli eventi dal 2020 in poi non hanno fatto che acuire. Considerato anche che le ubriacature audiovisive di politica sono da tempo una strategia che serve a mantenere il potere, a farsi eleggere, come anche a creare consenso da una parte e dissenso dall’altra – ammesso e non concesso che le parti esistano ancora.

© Alessandro Corrado Baila 2023 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

[inedito – dalla cartella “Diario del 2020-23” (work in progress)]

 

Khadija e altre donne

Khadija e altre donne 

Ma che strano pomeriggio avete vissuto oggi, fatto di un mezzo sole e tante nuvolette, che si muovevano lentamente, quasi a schiera. I discorsi vi cadevano leggeri dalle mani, come scampoli di seta gialla dalle dita lunghe e magre di una donna giovane. Profumo di iris gialli.

Finalmente, pochi giorni fa, è riuscita ad arrivare in Italia Khadija, moglie di un tuo caro amico. Si sono sposati in Marocco nel gennaio 2020, ma lei è arrivata da noi solo questo mese. Tra l’altro anche dopo anni di battaglie burocratiche e documenti da tradurre alla perfezione assoluta. Perché una volta è bastata una consonante in più nel cognome di lei, il documento non è stato accettato ed è tornato indietro. Tradurre di nuovo – e pagare un’altra volta. Tra l’altro – perché della questione mondiale hai già scritto che basta. Khadija è su quaranta, come suo marito, e porta un turbante che le copre i capelli. È vestita di toni color sabbia, con una maglia tutta decorata di stelle bianche. Con lei vi capite con un po’ di francese, ma la moglie del tuo amico vi dice di capire già buona parte di quel che dite in italiano, solo non sa rispondere. Beve lentamente un caffè liscio.

Molto, molto diversa da lei è invece la ragazza che riceve il pagamento delle vostre consumazioni, che ha le labbra quasi gonfie di rossetto e il resto del viso quasi tumido di trucco. Porta un completo elegante blu, fatto di giacca e pantaloni, e sotto una camicia azzurra. Neanche lavorasse alla reception di qualche hotel di lusso a Londra. Capelli lunghi, castani scuri. Degna di un posto d’onore in un museo delle cere.

Segue l’apparizione di una donna anziana, sui settant’anni, che ti apre la porta del negozio di riparazioni dove hai portato la bici a causa di una gomma a terra. La signora è di media altezza e porta i capelli corti. Arrivi proprio mentre il marito sta ultimando il lavoro e rimontando la ruota. Con lo sguardo scazzato e gli occhi un po’ chiusi, il signore guarda per la milionesima volta la ruota che gira, e ascolta per assicurarsi che il movimento sia perfetto. Ha uno stanzone stipato di biciclette e motorini da riparare, e alla sua età non ha esattamente l’aria di chi non vede l’ora di andare a cuccarsi un aperitivo subito dopo la fine della settimana lavorativa.

Poco dopo, quando è già buio, continuano ad apparire donne. Eccone una là, sì, è la bruna con i capelli castano scuro, quasi neri. Indossa un cappottino color sabbia, pantaloni e stivali a ginocchio, neri anche quelli. Occhi grandi, naso piccolo e labbra spesse. Sul metro e 70. Sennonché, è accompagnata da un pacioccone palestrato, con il volto pressoché piatto, fatta eccezione per il naso da pugile.

Poco distante da loro, sono seduti uno di fianco all’altra una donna bionda, alta, con gli occhiali enormi e il suo uomo. A giudicare da come si parlano, come si toccano e quanto appiccicati stanno, devono essere ancora nel pieno dell’innamoramento.

Parlando il venerdì sera di logica matematica, comandamenti negativi, libri di storia e sociologia, della mente che non sa metabolizzare le negazioni, e poi di doppie negazioni che in alcune lingue producono un’affermazione, tu e il tuo compare vi sentite proprio come due pesci fuor d’acqua, anzi, due pesci che boccheggiano in un torrente in secca. Si aggrega a voi solo Alessio, un ragazzo giovanissimo, che di lavoro fa l’agente immobiliare. Capelli e occhi chiari. Porta un completo elegante e gli occhiali anche lui. Parla del suo lavoro e di quanti altri lavori dovrà fare nei prossimi decenni, e della pensione che dovrà pagarsi di tasca sua – se ci andrà. Vi dice addirittura che nel nostro Paese ci vorrebbero più persone come voi, anche in contesti come quello. Poco dopo, Alessio fa per andarsene, o forse va solo alla banca dall’altra parte della strada per prelevare in vista del resto della serata. Lo chiami da dietro per salutarlo. E lui ti ringrazia tanto, non finirebbe mai.

Ed eccoti qui, infine, in cucina, a scrivere, una cosa importante quasi come l’acqua da bere. E ad ascoltare musica ambient di ieri e poi più recente.

Ma non piove. Da mesi.

[dalla cartella “Ritratti” – sera di venerdì 9 marzo 2023 –

ascoltando Evening Star di Robert Fripp e Brian Eno (1975) e poi Winter Garden di Eraldo Bernocchi, Robin Guthrie e Harold Budd (2011)]

© Alessandro Corrado Baila 2023 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

 

 

Panic Jazz Club

Panic Jazz Club 

Domenica 20 novembre 2022 h 13:46 – dopo aver ascoltato le Variazioni di Goldberg di J. S. Bach

Stanotte c’è stato vento. Tanto. E forte. Soffiava da tutte le parti. Sono arrivate notizie. Mah, speriamo che non fossero tutte false dalla prima all’ultima parola. Accontentiamoci di un 10, o magari anche un 20% di mezze verità. Che ultimamente è già tanto. Notizie che hanno sconvolto l’intero scenario. Scusa, come dici? Lo scenario? Dunque viviamo tutti una vita fasulla, come in un film? O in una serie TV, per essere più al passo coi tempi? Forse sì, e lo spettacolo potrebbe finire vedendoci sublimare dallo stato solido a quello gassoso, senza neanche un minuto per dire a qualcuno quanto ci siamo amati.

Stanotte sei stato in giro. Le luci dei lampioni lungo le strade, e quelle dei centri storici delle piccole città della tua zona. Il rumore del vento che batteva prima sui vetri dell’auto e poi sulla giacca, mentre frammenti di senso si staccavano e andavano persi nel turbinio dell’aria. Anche convinzioni incrollabili, valori ancorati nel profondo fino a un attimo prima. Così da lasciarsi dietro resti mutilati e all’improvviso inutili ad alcunché. Per qualcuno poi, il centro della vita si è spostato in avanti o all’indietro, a destra oppure a sinistra, come in una deriva imprevedibile.

Stanotte siete stati in un jazz club. Al chiuso, certo, ma quel ventaccio tirava anche là dentro, tant’è che il pubblico era tutto imbacuccato in giacca, guanti e berretto di lana, e avete bevuto tè caldo o tisane per non congelare.  Davvero pochi affari per il bar del club. Da parte loro, anche i musicisti hanno dovuto coprirsi il più possibile, fino a sembrare tutti obesi patologici. Le note del concerto si spargevano e svolazzavano dovunque, tant’è che ognuno deve aver sentito una performance radicalmente diversa. Anche perché, quando il vento era al massimo, è stato tutto una cacofonia di basso, batteria, tromba e sassofono, completamente fuori tempo. Verso la fine dell’evento poi, sarebbe dovuta arrivare una cantante di fama internazionale, ma presto tutti hanno capito che se ne sarebbe rimasta a cuccia, viste la malaparata e la confusione mentale di cui deve essere caduta vittima anche lei.

Al momento di uscire dal locale, il vento non ha schiaffeggiato solo voi, ma anche le stelle, le ha spostate a caso di qua e di là. Sirio è finita sulla Spada di Orione, mentre la sua gemella ha fatto un grande balzo in mezzo al Cigno. L’Orsa Maggiore si è confusa con quella Minore, come al momento di mischiare la pasta con il sugo e il formaggio. Mira ha preso a cambiare magnitudo ogni cinque secondi e se n’è involata di fianco alla Lira, dopo essere diventata più grande della Luna. Che invece si è allontanata e fatta sempre più piccola, fino a sparire in qualche altro sistema solare. I pianeti, che avrebbero dovuto essere in Scorpione, se ne sono andati a spasso tutti per conto proprio, alcuni a oscurare le Pleiadi, altri bassissimi sull’orizzonte, mentre la Stella Polare – l’unico e ultimo riferimento che speravate sarebbe rimasto – se ne deve essere migrata nel cielo del Sud.

[frammento tratto dalla cartella “Diario del 2022” (work in progress)]

© Alessandro Corrado Baila 2022 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

Ecco come forse avrebbe suonato la musica dentro il club, senza quel ventaccio freddissimo…

Sistema binario

Sistema binario 

Ultimamente ho proprio scelto di starmene in silenzio. In un Silenzio con la S maiuscola. Nonostante tutto quel che è successo negli ultimi due anni, lo stesso ho incontrato spesso gente, ho bevuto tante volte un buon bicchiere in compagnia e ce la siamo raccontata. Ho lavorato. E non mi sono mai ammalato, neanche un raffreddore o un mal di gola. La paura me la sono cavata subito, con un solo tampone negativo al primo colpo, poi più niente. Ho avuto una fortuna sfacciata. A chi o cosa dovrò mai dire grazie per il resto dei miei giorni?

C’è una persona – che forse sta leggendo – una persona con cui non ho mai ascoltato niente di niente ogni volta che è venuta a trovarmi a casa. E dire che a trovarmi è venuta tante e tante volte, anche dal marzo 2020 in poi. Parliamo delle nostre vite, parliamo di lavoro, di come la vediamo oggi nel nostro Paese, ma anche delle cose più grandi – e inquietanti – che accadono già da mesi. Potremmo ascoltare qualsiasi cosa, ma per qualche motivo la scelta è comune. Senza bisogno di dirsi nulla. Va così e basta. E dire che per questa persona la musica è un valore secondo forse solo all’amicizia, mentre per me forse rappresenta una sfera intima che non va toccata.

Non so più in cosa credere, per cosa o contro cosa lottare, chi ascoltare e invece a chi dire “Ok, ok, ho sentito, ciao, io vado!”. Per questo ho scelto il silenzio. Un silenzio morbido e bianco, anche quando è buio. La mattina appena alzato non ascolto più niente, ora mentre scrivo invece solo il battere delle dita sui tasti. Mi accontento dello schioccare della legna secca nella stufa, dei rumori che vengono dalla strada o delle voci che escono dalle case dei vicini. O di quel che si dicono i passanti. Comincio a capire perché certi interpreti di musica di compositori si ritirano nel silenzio, dopo aver raggiunto livelli musicalmente inarrivabili.

Tutta la musica che ascolto da anni con il PC, con il telefono o in chiavetta, o ancora prima con i CD, altro non è fatta che di sequenze interminabili di 1 e 0. Tante volte, perdermi e lasciarmi rapire da un ascolto non ha voluto dire altro che impigliarmi continuamente nell’oceano bianco e afono del sistema binario. Per non parlare degli LP più recenti, che, a quanto mi hanno detto persone esperte, sono anch’essi incisi spesso a partire da musica digitale, dove qualche volta lo stesso rumore della puntina che percorre il microsolco è inserito ad arte. Qualche volta però, è anche il caso di fare un po’ di autocritica: perché anche tutto quel che al computer sto battendo ora e batto da oltre vent’anni, ogni pagina, ogni frase, ogni parola, ogni lettera, le stesse virgole o i punti fermi, tutto questo altro non è che di nuovo quel sistema binario, cui anch’io ho delegato la quasi totalità delle mie relazioni sociali. Forse per questo, qualche volta anziché scrivere al PC preferisco sempre più spesso coltivare a penna il mio diario cartaceo, soprattutto con il favore delle ore di buio e del loro silenzio ovattato, ancora prima che inizino a fischiare i merli o si sentano le prime auto di passaggio.

A long time is coming”, dicono le ultime parole del testo di un certo album uscito nel 2019, dopo che la band aveva osservato tredici anni di… silenzio. Che vorranno mai dire quelle parole? Nel frattempo, già da anni non ho più lo stomaco abbastanza forte da leggere giornali o ascoltare notizie. Sono più contento quando posso lavorare offline, oppure quando spengo la connessione dati del cellulare.

Anziché scrivere, riflettere e pensare ascoltando anche solo musica ambient, o comunque senza suono di percussioni, voglio imparare a non pensare a nulla e a svuotare la mente dal desiderio – e quindi dall’infelicità. Desiderare solo quello che ho. Anziché dirmi e ridirmi che mi manca una certa cosa, più mille altre, che arrivano presto a ruota. Ce la farò? A tutti voi auguro di imparare presto a fare così.

[dalla cartella “Diario del 2022” (work in progress) – riferimento a Fear Inoculum dei Tool (2019)]

© Alessandro Corrado Baila 2022 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

Necrologio sarcastico

Necrologio sarcastico 

Un pomeriggio di un giorno lavorativo qualunque, uno scrittore quarantenne fallito esce da una pasticceria di periferia di una cittadina insignificante. In pasticceria, questa sottospecie di animale letterario ha appena bevuto un caffè forte e dall’ottimo aroma, nella speranza che in testa gli si accenda finalmente l’idea di partenza di un romanzo vero. Non è certo la prima volta che il personaggio fa questo tentativo. Sul metro e 80, con la pelata, i capelli in disordine e i baffi a manubrio, questo scrittore fallito ha spesso la barba rasata male, anche perché le lamette le usa e le riusa proprio finché sembra che la barba gliel’abbia fatta il Dr. Jekyll. Quarant’anni ha il personaggio, ma si direbbe anche quasi cinquanta, visto che, oltre alla pelata, in testa ha già un bel po’ di capelli grigi, e ha anche il volto provato dalle notti insonni per i morsi della fame.

Il fallito attraversa la strada sulle strisce, ma senza prima guardare a destra e a sinistra, sbadato e con la testa fra le nuvole com’è sempre stato. Fa appena in tempo a sentire lo stridio fortissimo dei freni di un SUV, poi sente un colpo terribile al fianco sinistro, cade e batte la testa sull’asfalto. Un attimo dopo, un’altra auto di grossa cilindrata che viaggia in senso opposto lo stira meglio di un ferro AEG. Lo scrittore quarantenne fallito muore sul colpo, ma con un ottimo caffè ancora in pancia. Certo questo ex essere umano tutto dedito al disutile ha attraversato su strisce pedonali ben evidenti e dipinte a nuovo, ma sfortunatamente non avrà modo di far valere le sue ragioni in tribunale.

Chissà a cosa stava pensando il personaggio appena prima di essere investito, forse non ha guardato a destra e a sinistra prima di attraversare perché proprio in quell’istante gli era venuta l’idea che poteva cambiargli la vita. Pazienza. È morto un altro scrittore fallito. Ne danno il triste annuncio un computer vecchio, inconsolabile e pieno di musica matta, una scrivania di truciolato regalata, un guazzabuglio di aborti letterari scritti a penna e un po’ di bollette non pagate sul tavolinetto della zona cucina-soggiorno del suo monolocale in affitto. Nel caso qualcuno dei pochi parenti ancora vivi sia disponibile a saldare gli affitti arretrati e soprattutto ad accollarsi le spese del funerale, la cerimonia si terrà in luogo e data da destinarsi. Una buona notizia è però che quasi sicuramente non sarà necessario organizzare alcuna funzione religiosa, e questo per rispetto per le convinzioni anticlericali del defunto ancora fresco, che già da adolescente sbandierava a gran voce anche a scuola tutto il suo odio per qualsiasi pesantissima sovrastruttura di potere ecclesiastico. Un aspetto acuitosi sempre più negli anni, soprattutto negli ultimi, merito forse anche della fame, inframezzata a colazioni di pane secco e caffè nero, o ad altri pasti ricchi di molecole di ossigeno e idrogeno insieme.

Antefatto (composto post mortem da un anonimo)

Bisogna dire però che, prima di uscire per un caffè in pasticceria, lo scrittore quarantenne fallito si era alzato nel primo pomeriggio, e dopo essersi lavato e vestito si era subito seduto alla scrivania con carta e penna, senza prima bere nulla. Sperava il quarantenne fallito che finalmente in quel momento in cui era ancora mezzo addormentato – e, come era solito dirsi, ancora in contatto con il mondo delle Idee platoniche – sperava, dicevamo, che dalla mente ancora libera gli sarebbe sgorgata tutta in un getto la trama di un romanzo, che, come si conviene, lo avrebbe reso inviso ai critici bacchettoni e irresistibile alle donne colte. Tuttavia, da anni in quei momenti dalla mente dello scrittore fallito non sgorgavano altro che brevi spunti per poesie serafiche e piene di vecchi clichés romantici, e questo neanche ogni giorno. Nello specifico invece, quel pomeriggio, dopo che si era appena alzato, lo scrittore aveva prima sentito parte del battibecco tra una madre anziana e un figlio quasi cinquantenne, che da anni si diceva stufo e arcistufo di vivere ancora con i genitori. Subito dopo, sempre involontariamente, il quarantenne fallito si era anche dovuto sorbire a lungo l’abbaiare isterico e sfibrante di due cani addosso a un camioncino, che in quella e altre vie distribuiva come ogni giorno acqua e bevande gassate. Questi dunque i motivi di quello che di lì a breve sarebbe stato l’ultimo caffè in pasticceria.

[2018-2022; inedito tratto dalla cartella “Ritratti”, work in progress]

© Alessandro Corrado Baila 2022 – tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione, anche parziale, a mezzo stampa o web, salvo esplicito consenso scritto da parte dell’autore

Ed ecco a voi un esempio di quella “musica matta” che affollava l’hard disk del defunto:

 

 

Il minestrone di fagioli neri (nuova ricetta!)

Il minestrone di fagioli neri (nuova ricetta!)

Lunedì 26 settembre 2022 h 17:23 – ascoltando Deus Arrakis di Klaus Schulze (2022)

Santo cielo, che senso di stanchezza ti ha preso poche ore fa, al ritorno da scuola! Quando ti senti così, di solito la cosa migliore è andare a letto un’ora, ma avresti rischiato di svegliarti domattina al suono della sveglia, senza prepararti minimamente per il martedì mattina. Quindi hai scelto di resistere. A quanto si diceva anche in sala insegnanti, pare che una specie di minestrone nauseabondo di fagioli più o meno neri abbia vinto quelle che già da un po’ di anni e con una decisa punta di ipocrisia sono definite “votazioni”. Eh sì, perché anche ieri, con un tono retorico da dittatura, siamo stati chiamati a votare nel segreto inviolabile dell’urna elettorale, neanche avessimo ricevuto la chiamata dell’Altissimo e Onnipotente. In parole povere, abbiamo dovuto nuovamente scervellarci su quale fosse il minore dei mali su cui tracciare – magari con forza e con rabbia – una grossa croce con una matita dalla punta grossa, possibilmente impugnata come un bastone. Pare – ahimè, cosa ancor più penosa – che anche i presunti perdenti debbano dire la loro per esteso, e soprattutto discutere per filo e per segno come far risorgere le loro aziende politiche dall’apparente debacle, quando in realtà si tratta di personaggi che stanno e sono sempre stati benissimo da quando sono entrati a far parte dell’allegro teatrino itinerante della politica, sia che abbiano il volto paonazzo e la tachicardia grave a furia di fare opposizione dura, sia che gli elettori-clienti-consumatori-utenti-telespettatori – nonché ex cittadini – li abbiano chiamati a prodigarsi giorno e notte per il bene del Paese, e ad attuare finalmente le tanto agognate riforme, le stesse di cui si parla a spada tratta da oltre cinquant’anni. Cosa ancor più di triste, ascoltando alcuni colleghi ti sei reso conto che purtroppo un certo linguaggio falso è entrato anche nel cervello di alcuni insegnanti. Un esempio su tutti potrebbe essere l’ormai inflazionata “salita al Colle”, come se la cosa avesse chissà quale valore catartico, e a salire (a piedi o seduti in auto?) fino al Quirinale fossero chissà che statisti di profilo elevatissimo. Oh, scusate, qui adesso ci vuole proprio un buon sorso di caffè nero, per tirarsi su dal torpore.

17:53

E tu? Che hai da dire di ieri? Dai, confessa. Confessa che eri sì andato anche tu a tracciare quella X sulla schedina, con l’intenzione quasi di strappare la carta dalla rabbia, ma anche che, ascoltando una vecchia canzone che si intitola Sulla Terra, la voglia di esercitare il tuo diritto è evaporata come acqua sul gas, forse complice il caldo del primo pomeriggio. Sicché hai finito con il fare semplicemente un giro in tondo in auto. Che poi, al ritorno, ti sei accorto che ad esprimere il tuo voto eri stato retoricamente chiamato anche a metà giugno. Ma per cosa poi? Non ti ricordi più. A metà giugno e tante, tante altre volte nello stesso anno, dal 2015 in poi.

Qualunque sia il numero di timbri che hai adesso sulla tua carta fedeltà politica, qualunque sia il goloso premio che ti aspetta una volta completati tutti i buchi, certo è che le previsioni per i prossimi mesi sono proprio nere, anche per lo stato psicofisico tuo e di altri milioni di Italiani. Perché tutti i media di maggior diffusione, tutti prostrati e in religioso ascolto della voce del rispettivo padrone, si riempiranno giorno e notte della gente talking without speaking di Simon & Garfunkel, mentre chi avrà la disgrazia di esserne attaccato forse reagirà trasformandosi in un essere hearing without listening. Se solo avessi studiato medicina, come ti ha detto tante e tante volte mamma, quando stavi per finire il liceo! Magari ora saresti un ricercatore noto e stimato, e potresti avviare un importante studio internazionale sul rapporto tra elezioni politiche e disturbi gastrointestinali, piuttosto che cardiovascolari, nevrastenia, oppure – perché no? – anche turbe psichiatriche.

Che senso di grigiore quindi! Perché anche per i prossimi anni si ingrosserà quella lunghissima linea grigia di attorucoli senza arte né parte. Un po’ come le teorie di anime curve e dannate, che un cattivo di un vecchio cartone giapponese fa scendere in massa nell’Ade.

18:25Deus Arrakis è ripartito

Dai, adesso basta caffè! Stamattina a scuola era pieno di insegnanti e alunni con la mascherina FFP2, raffreddori, mal di gola e voci un po’ strozzate. La collega di Educazione Fisica è impazzita a furia di richieste di password, codici e dati identificativi pretesi da Google, solo per fare le normali cose di lavoro, l’insegnante di Italiano era in guerra con la stampante-fotocopiatrice, mentre all’ingresso la nuova docente di Matematica firmava un altro contratto precario. Forse però è stato meglio questo mondo, anziché le vetrine mediatiche, che di sicuro anche in questo momento trasbordano di facce di gomma, opinionisti prezzolati, e magari anche calciatori in pensione, perché in politica la metafora sportiva è sempre gradita, come il cacio sui maccheroni. Pensa al tuo lavoro, pensa ai tuoi ragazzi, che data l’età potrebbero essere tutti tuoi figli. Pensa a loro, e insegna loro a pensare con la loro bellissima testa.

[inedito, tratto dalla cartella “Diario del 2020-21-22“; riferimento a Sulla Terra dei Litfiba (1987), a The Sound Of Silence di Simon & Garfunkel (1967), a La Voce Del Padrone di Franco Battiato (1981) e al cartone animato I Cavalieri Dello Zodiaco]

 

Un salume qualunquista (versione 2022)

Un salume qualunquista (versione 2022)

Il sapore di domenica mattina del prosciutto cotto. Prosciutto cotto, ovvero: ragazzini trascinati a forza a messa la domenica mattina, mito della rispettabilità borghese, ipocrisia, predica, pranzo della domenica in famiglia, e infine l’incredibile primitivismo dei programmi TV della domenica pomeriggio.

Tutto questo mi è balenato per la mente qualche anno fa, mentre in una squallida e soleggiata domenica mattina occidentale mangiavo a fatica un panino al prosciutto cotto, il salume più ipocrita e conservatore che esista.

È vero, ci sono anche salumi che politicamente stanno a più a destra del prosciutto cotto, come il prosciutto crudo e ancor più la bresaola. Più che conservatori come il prosciutto cotto però, il prosciutto crudo e la bresaola sono reazionari e tendono a promuovere riforme autoritarie dello Stato e della società. Se chiediamo ad un prosciutto crudo o ad una bresaola cosa ne pensano del progetto di insegnare l’arabo nelle scuole pubbliche, questi due salumi non useranno mezzi termini, né esiteranno a dire che si tratta solo di una porcata voluta dai comunisti per fare un favore ai loro amici integralisti islamici. Alla stessa domanda invece un prosciutto cotto si sente imbarazzato e arrossisce, perché vorrebbe sì essere schietto come un prosciutto crudo o una bresaola, cosa che però gli è severamente proibita dalla sua doppia morale. Il prosciutto cotto tenterà allora di ubriacare di parole l’interlocutore senza mai venire al punto, ribadendo l’ambiguità strutturale delle sue posizioni. Mentre infatti i salami, soprattutto quelli con l’aglio, vantano una lunga tradizione di lotte sindacali per i diritti del lavoro, e alcuni tipi di mortadella, in particolare quelle con i pistacchi, hanno tendenze decisamente libertarie o espressamente anarchiche, storicamente il prosciutto cotto si schiera alternativamente con tutti i salumi pur di mantenere la poltrona.

Oggi, in anni in cui si cercano prevalentemente piaceri facili da ottenere e veloci da consumare, si pensa prevalentemente al prosciutto crudo e alla bresaola da un lato e al salame e alla mortadella dall’altro come ottimi nel panino e nel tagliere, oppure accompagnati da vino, formaggi, sottaceti, verdure grigliate e quant’altro. L’edonismo contemporaneo ha però il subdolo fine di farci dimenticare la storia recente del nostro Paese e il ruolo determinante che i salumi hanno avuto in essa. Da una parte infatti, il prosciutto crudo e la bresaola non hanno mai nascosto le loro simpatie per lo spontaneismo armato di estrema destra. Alcune varietà locali anzi si sono espresse dichiaratamente in favore del ritorno del fascismo in Italia e hanno sempre tributato il loro plauso ai regimi autoritari e dittatoriali che via via sono sorti nel mondo. All’estremo opposto, il salame e la mortadella non hanno mai preso una posizione chiara contro il terrorismo di estrema sinistra e il suo folle principio di cambiare un Paese in meglio con le armi e la violenza, e senza avere un consenso diffuso.

In mezzo a questo conflitto di fazioni opposte sta storicamente il prosciutto cotto, che, manovrando a suo piacimento i salumi di entrambe le fazioni e manipolando il consenso dei consumatori, ha tratto un doppio vantaggio dalla cosiddetta strategia della tensione, e ha aumentato le sue vendite in maniera esponenziale, soprattutto tra chi parteggiava alternativamente per gli uni o per gli altri a seconda della convenienza del momento.  Da questo dipende in gran parte il successo delle salumerie dichiaratamente di centro e a conduzione familiare, nelle grandi città come nei piccoli centri. Sia nelle grandi città nei piccoli centri del nostro Paese, alcuni salumi in vendita nelle salumerie dichiaratamente di centro sono stati protagonisti di un’ascesa senza precedenti nel mondo degli affettati, sia in fatto di consenso tra i consumatori, sia in fatto di vendite. Questo però grossomodo fino all’esplosione della crisi nel nostro Paese nel 2009, che ha visto la scomparsa o la concentrazione nei centri commerciali di tante piccole salumerie qualunquiste. Una strategia di successo allora come oggi è però sempre quella di posizionare un grande prosciutto cotto di prezzo medio-alto al centro del banco dei salumi, in modo da offrire immediatamente al cliente una scelta con cui non sbagliare mai.

In generale, per quanto sfiziosi siano e per quanto profonda e appagante sia l’estasi sensoriale che ci donano i salumi, quando li mastichiamo e poi li digeriamo non dobbiamo mai dimenticare le loro precise responsabilità storiche, anche perché il remoto anno di produzione di molti salumi dominanti nel nostro Paese li rende ormai inservibili. Inoltre, per quanto moralmente riprovevole sia il comportamento del prosciutto cotto, forse ancora più abietto è però l’agire di piccoli gruppi di culatelli, porchette, soppresse, ossocolli, lardi, finocchione, spianate, spalle cotte, presunti affettati dietetici, versioni ipercaloriche di affettati esteri e altri salumi minori, che senza alcuna vergogna corteggiano questo o quel prosciutto cotto maggiormente in voga sulle tavole degli Italiani a seconda della stagione, al solo fine di aumentare il fatturato delle rispettive salumerie di appartenenza, salvo clamorosi voltafaccia.

Rispetto a pochi decenni fa, tuttavia, oggi tutti i tipi di salumi o quasi sono stati assorbiti dalla produzione alimentare anonima di massa. Mortadella o bresaola, salame o prosciutto crudo o ancora prosciutto cotto che compriamo, oggi la stragrande maggioranza degli affettati che finiscono nella pancia dell’uomo comune contengono zuccheri, coloranti, conservanti, aromi artificiali ed esaltatori di sapidità, che nulla hanno a che fare con la loro schiettezza originaria. Inoltre, al di là delle dichiarazioni d’intenti, oggi nelle dispute tra salumi l’aspetto ideologico è all’acqua di rose, se non inesistente, mentre prevalgono chiaramente le lotte che mirano alla conquista di nuovi mercati esteri, all’aumento delle vendite e all’arricchimento tramite banche, fondazioni e società finanziarie. L’unica alternativa credibile al redditizio compromesso tra salumi capeggiato dal prosciutto cotto è forse rappresentata dallo speck di maso, che ha però un bacino di consumatori molto ridotto e localizzato, e non può quindi competere con i grandi numeri degli affettati nazionali. È quindi di grande attualità la proposta simbolica avanzata pochi mesi or sono da un eminente prosciutto cotto alle erbe dell’Alta Toscana, che prevede di cambiare la forma del Gran Consiglio dei Salumi da semicircolare a circolare. Bando per sempre quindi a diatribe asperrime al chiuso, manifestazioni di protesta oceaniche e scontri di piazza tra fazioni opposte, con tanto di resti di salame o di bresaola, di mortadella piuttosto che di prosciutto crudo, che per oltre mezzo secolo sono rimasti sulle piazze d’Italia, a testimoniare quanto estremi fossero lo scontro ideologico e la lotta politica. E soprattutto: dopo tanti decenni di ipocrisie e sofisticazioni alimentari, finalmente un prosciutto cotto con il gusto della sincerità. 

[dalla silloge di racconti brevi “Una domenica di tanti anni fa” – versione inedita e ampliata nel corso degli anni, dopo la pubblicazione del volume (ahimè!)]

Autunno trasfigurato

Autunno trasfigurato 

Martedì 10 maggio 2022 h 10:34 – senza ascoltare nulla

Alchimie di cuori notturni. La notte è stata silenzio, riposo soffice di chi lavora. Voluttà di sogni, dopo le fatiche senza melodia del giorno. Lo splendore massimo degli iris è stato nelle ore in cui per strada non c’era anima viva. Nessuno si è fermato ad ammirare le loro bocche spalancate, che intonavano canti caldi di maggio e primavere d’oro. Ora invece è mattina inoltrata, e gli iris già cantano con voce stonata la fine della loro bellezza effimera. I petali delle loro bocche cadono verso la terra e si fanno pian piano nerastri. Pesantezza e rumore ruvido di archi scordati.

E stanotte? Stanotte avrai la forza di rimanere sveglio a lungo, a guardare in giardino un cimitero di petali appassiti, sopra violini fatti a pezzi come da un matto e melodie distrutte, scritte su pentagrammi strappati con furia? Forse, ma può anche darsi anche che sarai l’unico, mentre poche ore dopo il lavoro chiamerà, e anime dure andranno presto a onorare il loro dovere, indifferenti e sorde alle alchimie del cuore di un sognatore.

17:22 – senza ascoltare nulla

Passato, trascorso come rapido come un torrente in piena, è quell’autunno della musica dark ascoltata in auto, che più traffico c’era meglio era, perché più traffico c’era più avevi tempo di ascoltare farfalle nere e blu volteggiare nella luce viola. Quell’autunno di piogge e di nuvoloni grigi, ma anche di violini che commentavano baci d’addio, baci taglienti.

Rincasare che diluviava, entrare e trovare tutto un mondo in bianco, nero e grigio. Vecchie bambole ammassate alla rinfusa nei posti più impensati, alcune senza più gli occhi, altre con le gambe e la braccia spezzate, altre ancora fatte a pezzettini. E da fuori sentire il vento furioso, che chiamava a partire verso altri lidi lontanissimi, spiagge di fronte all’oceano in burrasca, o i paesaggi invernali più estremi del Cile più australe.

Da una vecchia chitarra acustica, appoggiata su un vecchio divano, dita lunghe e ossute facevano stillare note languide, gocce d’argento, che disegnavano nuove costellazioni per il futuro. Il rumore della mano sinistra al momento di cambiare accordo. Poi quelle dita e quelle mani intonavano una fuga disperata, lungo una notte che sognavi infinita, senza più un sole che annunciasse un nuovo giorno!

Autunno trasfigurato, perché stai parlando del 2020. Trasfigurato, sì, perché di notte, lungo quell’autostrada vuota, voci senza volto né corpo chiedevano sommessamente luce e pietà per il nostro mondo.

[Dalla cartella “Diario del 2022” (work in progress); riferimento alla copertina e alla musica di Like Gods Of The Sun dei My Dying Bride (1996) e di Damnation degli Opeth (2003)]

 

Il giorno dopo

Il giorno dopo

Lunedì 2 maggio 2022 h 13:04 – ascoltando Going For The One degli Yes (1977)

Uh, ma che gioia! Perché ieri è finalmente si è nuovamente tenuto il concertone del primo maggio! Primo maggio, certo, perché da ieri non è più obbligatorio mascherarsi all’aperto. E si può anche stare tutti attaccati! Altra gioia, ancora più grande! Piazza San Giovanni a Roma, la capitale suprema dell’inciucio politico-istituzionale italiano, questa città simile a un calamaro gigante, che con i suoi lunghissimi tentacoli ha infettato di inciucio tutto il Paese. Da settimane giornali e TV snocciolavano le cifre dei morti sul lavoro con una banalità quasi da prezzi di qualche mercato rionale, perché la cosa è servita a preparare il terreno a discorsi tenuti da facce di gomma, come se fossero state tutte persone da ascoltare, gente che dà l’esempio. Ha tenuto un discorso anche il Presidente della Repubblica, questo inguaribile idealista, almeno in apparenza, che parla sempre con quel tono solenne, quasi a lettere di ferro. E ha addirittura i giornalisti che si occupano solo di lui. La TV a casa non ce l’hai, ma per avvelenarti è bastato andare a trovare mamma, che in quei momenti stava seguendo il concerto su un canale RAI presunto di sinistra, in realtà agli ordini di partiti e sindacati che ritengono follemente di occuparsi ancora del bene dei lavoratori, quando invece per loro sono ben più importanti le banche e le fondazioni cui sono legati. O le case editrici dei loro amiconi, che le traduzioni anche di testi importanti le pagano una miseria. Da mamma hai ascoltato addirittura una fantomatica telefonata del Capo della Federazione Russa, che parlava alla solita folla riunita per il concerto, e che diceva di voler fermare la guerra per motivi umanitari. Con tanto di interprete simultaneo. Che esultanza da parte dei musicisti! Ben felici di mostrare che suonando un po’ di canzonette a un concerto si cambia qualcosa! Si cambia il mondo! Pochi minuti dopo però, il telegiornale di quella rete TV vagamente di sinistra, avrebbe subito drasticamente smentito quella finzione, ovvero parlando subito dell’evolversi del conflitto. Una rete che si potrebbe meglio definire cattocomunista, anche perché tutti i voti sono ben accolti, vengano essi dal sottanone di qualche prete contestatore, come anche dagli elettori oggi anziani, che ricordano ancora bene cosa volesse dire essere veramente di sinistra quando erano sui vent’anni o poco più.

E allora ecco al telegiornale tutta quella sfilata di personaggi anzianotti e da operetta, che parlavano dei giovani e dei loro diritti, dei mille mali del lavoro precario e invece del lavoro fisso che dovrebbe essere la regola! Ma che novità! Ma che dichiarazioni! Mai sentite cose del genere! A proposito, sei o sette anni fa, su un canale che si occupa di storia, avevi visto uno speciale sul caporalato nel Sud Italia, datato 1990. Anche in quelle riprese, non potevano mancare i gloriosi predecessori dei sindacalisti di ieri sera a casa di mamma, anche loro che si abbandonavano a rumorosi proclami di cambiamento, quasi avessero bevuto un po’ troppo. Con un’unica differenza: se nel 1990 erano colpiti dal caporalato principalmente Italiani poveri, oggi lo sono principalmente gli extracomunitari, che da sfruttare sono ancora più facili.

[dalla cartella “Diario del 2020-21-22“, work in progress]

 

 

Altrove

Altrove 

Lunedì 7 marzo 2022 h 6:35 AM – ascoltando una lunga playlist di collaborazioni tra Harold Budd e Robin Guthrie

Ed eccola qui. È arrivata Nadja. Questa ragazza l’avevi già vista diverse volte in foto insieme al tuo amico Rocco, ma solo oggi è arrivato il momento di conoscervi e parlarvi di persona. Sicuramente molto diversa rispetto alle foto. Ecco che si accomoda e si ordina una Coca Cola, in realtà in un locale dove si bevono soprattutto aperitivi e bicchierini. Dunque, com’è Nadja? Nadja è proprio una persona che merita una pagina scritta. Di media altezza, vestita di colori freddi, soprattutto bianco e azzurro, con una borsa nera, i capelli chiari, raccolti sulla nuca. Chiari ha anche gli occhi, e la pelle addirittura chiarissima. Ha un aspetto morbido Nadja, anzi, soffice, come le sue guance, quasi come in una foto sfocata, come se i contorni del suo viso, delle sue mani e dei suoi vestiti si confondessero con l’aria e il mondo tutt’intorno. Parla di capelli bianchi, lei che deve ancora compiere 32 anni, questi maledetti capelli bianchi che si ritrova sempre sulla parte superiore della testa, mai uno che si riesca a nascondere dietro le orecchie! Mentre tu vai per i 40 e Rocco per i 42. “Sono una perfezionista”, dice lei, ma in realtà comunica spesso per sensazioni o stati d’animo. Parla di come si sente quest’anno, oppure sorseggia il suo drink. “Comunque da giovane altro che Coca Cola, una volta ero proprio una gorna”, continua. Anni sepolti, ma non dimenticati. E forse una nuova vita.

Prima del suo arrivo, avete parlato un po’ anche dell’ultima guerra scoppiata, che anche a migliaia di km di distanza non promette nulla di buono anche qui, anzi, in tutto il mondo. La domanda che vi siete posti più spesso è stata “Ma cosa facciamo se…?” Non appena arriva Nadja invece, si comincia a parlare di lavoro. E di traferirsi. Certo è domenica, ma per l’indomani la ragazza ha in programma un colloquio importante, che potrebbe portarla a vivere a Mestre. “A Mestre? Ma è un posto bruttissimo, invivibile!”, ribatte Rocco. “Beh, dipende dalla zona dove abiti”, risponde lei, che poi vi fa capire di voler andare via dal paese in provincia di Treviso dove abita già da qualche anno. Andare fuori dalle scatole. A questo punto, ti balena per la mente il titolo di un romanzo, che recita La vita è altrove.  Forse è questo che ha in mente Nadja. La vita, quella vera, è altrove, prima o poi è sempre un dover partire, sradicarsi, arrivare in un posto nuovo, iniziare una nuova fase della vita, ambientarsi, imparare una lingua nuova magari, lavorare. Poi, quando le radici si sono fatte di nuovo fin troppo profonde, staccarsi un’altra volta, ripartire e andare alla scoperta di altri pezzi di mondo. Che sia questo quello che ha voluto dirvi Nadja? Forse bisognerà riparlarne, perché, poco dopo aver consumato lentamente la sua Coca Cola, la giovane si alza e vi saluta, non senza che prima voi le abbiate fatto gli auguri per il colloquio di lavoro.

Allora, cosa dici? Cosa te ne pare di lei?”, ti chiede Rocco poco dopo. “Mi ricorda tanto la canzone La Donna d’Inverno, quella di Paolo Conte”, rispondi. “E a te? Che canzone ti ricorda?”, continui. “A me ricorda un certo pezzo di Murubutu”, ti risponde convinto Rocco.

[riferimento a Pentagramma dell’Acqua di Murubutu feat. Dia]

 

 

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